Considerazioni sui Discorsi sull’Europa di Papa Francesco

Dario Antiseri

  1. L’essere cristiano è compatibile con la laicità dello Stato?

Di continuo, in questi cinque Discorsi sull’Europa il Papa insiste sulla centralità della persona umana, «altrimenti in balia delle mode e dei poteri del momento». In questo senso, egli precisava il 25 novembre del 2014 nel Discorso al Parlamento Europeo, «ritengo fondamentale non solo il patrimonio che il cristianesimo ha lasciato nel passato alla formazione socioculturale del continente, bensì soprattutto il contributo che intende dare oggi e nel futuro alla sua crescita. Tale contributo non costituisce un pericolo per la laicità degli Stati e per l’indipendenza delle istituzioni dell’Unione, bensì un arricchimento. Ce lo indicano gli ideali che l’hanno formata fin dal principio, quali la pace, la sussidiarietà e la solidarietà reciproca, un umanesimo incentrato sul rispetto della dignità della persona». Successivamente, nel discorso Ai capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea (24 Marzo 2017) Papa Francesco, richiamandosi a Giovanni Paolo II, dirà che «nel nostro mondo multiculturale tali valori continueranno a trovare piena cittadinanza se sapranno mantenere il loro nesso vitale con la radice che li ha generati. Nella fecondità di tale nesso sta la possibilità di edificare società autenticamente laiche scevre da contrapposizioni ideologiche, nelle quali trovano ugualmente posto l’oriundo e l’autoctono, il credente e il non credente».

Brevi passaggi, questi, in cui il Papa risponde ad un interrogativo non indifferente e continuamente risorgente: l’essere cristiano è compatibile con la laicità dello Stato? Ebbene, a partire dalle affermazioni del Papa, a quanti sembrano dubitare della compatibilità dell’essere cristiano con la laicità dello Stato e, a coloro che si ostinano a negarla vale la pena rivolgere quest’altra domanda: lo Stato laico – cioè la società aperta o Stato di diritto – sarebbe stato possibile senza il messaggio cristiano?

Nel 112 d.C. Plinio il Giovane, a quel tempo governatore della Bitinia, invia un resoconto all’imperatore Traiano, dove gli notifica di aver condannato a morte tutti quei cristiani che si erano rifiutati di adorare Cesare come Signore (Kýrios Kaýsar) e di maledire Cristo (Anáthema Christós). Con il messaggio cristiano aveva fatto irruzione nella storia del uomini l’idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo e di ogni donna a giudicare il potere politico. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l’Assoluto. Lo stato non è l’Assoluto: Kaýsar non è Kýrios. E con ciò il potere politico veniva desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte al giudizio di legittimità da parte di coscienze inviolabili, di persone «fatte a immagine e somiglianza di Dio». Il Dio delle popolazioni europee è il Dio della Bibbia e del Vangelo, il Dio giudaico-cristiano: il Dio che desacralizza la natura e che così, come sostiene Max Scheler, la rende disponibile alla manipolazione e all’indagine scientifica in una misura prima impensabile; è il Dio che desacralizza il potere politico offrendo così le basi di una prospettiva non teocratica; è il Dio che rende libera, responsabile e inviolabile la persona umana con il conseguente ridimensionamento dell’ordine politico. La secolarizzazione con un mondo non più sacro e con un uomo che, per quanto possa illudersi, non è Dio, è una chiara conseguenza del messaggio evangelico. E, d’altro canto, se le ninfe non aleggiano più su sorgenti d’acqua e non c’è più Zeus a lanciare fulmini dal cielo, tutto questo è una purificazione della fede dalla superstizione e niente affatto la cancellazione della possibilità di una realtà trascendente. In poche parole, il messaggio cristiano libera l’uomo dall’idolatria: il Cristiano non può attribuire assolutezza e perfezione a nessuna cosa umana. È, dunque, per decreto religioso che lo Stato non è tutto, non è l’Assoluto.

Certo, è vero, per dirla con P.B. Shelley, che «noi tutti siamo Greci», ma è anche vero, come ha scritto W. Röpke, che «soltanto il Cristianesimo ha compiuto l’atto rivoluzionario di sciogliere gli uomini, come figli di Dio, dalla costrizione dello Stato e, per parlare come Guglielmo Ferrero, di demolire l’esprit pharaonique dello Stato antico». Fu «per semplice osservanza della verità» che Benedetto Croce volle precisare in Perché non possiamo non dirci cristiani (1942) che «il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto». E «la ragione di ciò – egli afferma – è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità». E ne La società aperta e i suoi nemici (1945) è un laico come Popper a riconoscere del tutto apertamente che «gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l’umanitarismo, la libertà, l’uguaglianza, li dobbiamo all’influenza del Cristianesimo […]. I primi cristiani ritenevano che è la coscienza che deve giudicare il potere e non viceversa». E la coscienza della persona, come ultima corte di giudizio nei confronti del potere politico, in unione con l’etica dell’altruismo, «è diventata la base della nostra civiltà occidentale». E, a questo punto, una sola ulteriore testimonianza, quella di E. Laboulaye: un pensatore del periodo di Napoleone III, il quale, in un saggio sulla differenza tra libertà antica e quella moderna (L’ètat et ses limites, 1865), faceva presente che noi dobbiamo la nostra libertà moderna al coraggio dei martiri cristiani di fronte al tardo dispotismo romano. Scriveva, dunque, Laboulaye: «I palazzi dei papi hanno rimpiazzato il palazzo di Cesare, il Vaticano parla di potenza alla Chiesa; ma al di sotto di questo splendido edificio ci sono le catacombe, le quali parlano di libertà».

Agli inizi degli anni Cinquanta, Nikita Kruscev, nel corso di un colloquio con Harold Macmillan, all’epoca ministro degli Esteri della Gran Bretagna, chiese a costui che cosa fosse ciò in cui crede l’Occidente. E Macmillan rispose: «L’Occidente crede al Cristianesimo». La realtà – è ancora Popper a parlare – è che, «a eccezione del razionalismo greco, nulla ha esercitato un così forte influsso sulla storia delle idee in Occidente come il Cristianesimo e le lotte al suo interno». Ma ecco cosa, più vicino a noi, diceva l’allora cardinale Ratzinger in una intervista rilasciata il 26 novembre del 2003. Il cardinale affronta alcuni temi presenti nel suo libro Fede, verità, tolleranza (2003) e ritorna sull’argomento del relativismo. Chiede l’intervistatore: «C’è una novità nel suo libro a proposito del relativismo. Lei sostiene che nella pratica politica, il relativismo è benvenuto perché ci vaccina, diciamo, dalla tentazione utopica. È il giudizio che la Chiesa ha sempre dato sulla politica?». Ratzinger: «Direi proprio di sì. È questa una delle novità essenziali del Cristianesimo per la storia. Perché fino a Cristo l’identificazione di religione e Stato, divinità e Stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo Stato. Poi l’Islam ritorna a questa idea di identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità». In realtà, «da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo Stato».

Di nuovo l’intervistatore: «Quindi non c’è potere o politica o ideologia che possa rivendicare per sé l’assoluto, la definitività, la perfezione…». Ratzinger: «Questo è molto importante. Perciò sono stato contrario alla teologia della liberazione, che di nuovo ha trasformato il Vangelo in ricetta politica, con l’assolutizzazione di una posizione, per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare progresso. In realtà, il mondo politico è il mondo della nostra ragione pratica dove, con i mezzi della nostra ragione, dobbiamo trovare le strade. Bisogna proprio lasciare alla ragione umana di trovare i mezzi più adatti e non assolutizzare lo Stato. I padri hanno pregato per lo Stato riconoscendone la necessità, il suo valore, ma non hanno adorato lo Stato: mi sembra proprio questa la distinzione decisiva».

Un’ulteriore considerazione dell’intervistatore: «Ma questo è uno straordinario punto di incontro tra il pensiero cristiano e la cultura liberal-democratica». Ratzinger replica: «Io penso che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando una nuova libertà. Lo Stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo Stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo Stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello Stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal-democratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa».

  1. Che cos’è questa nostra Europa? Che cosa è diventata?

«Accanto ad un’Unione Europea più ampia, vi è anche un mondo più complesso e fortemente in movimento. Un mondo sempre più interconnesso e globale e perciò sempre meno “egocentrico”. A un’Unione più estesa, più influente, sembra però affiancarsi un’Europa un po’ invecchiata e compressa, che tende a sentirsi meno protagonista in un contesto che la guarda spesso con distacco, diffidenza e talvolta con sospetto».

«Si può constatare che, nel corso degli ultimi anni, accanto al processo di allargamento dell’Unione Europea, è andata crescendo la sfiducia da parte dei cittadini nei confronti di istituzioni ritenute distanti, impegnate a stabilire regole percepite come lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addirittura dannose. Da più parti si ricava un’impressione generale di stanchezza, di invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vivace. Per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni». Così, sempre nel Discorso al Parlamento Europeo.

C’è un individualismo che subito si traduce nella globalizzazione dell’indifferenza – un individualismo «che rende umanamente poveri e culturalmente sterili, perché recide di fatto quelle radici su cui si innesta l’albero. Dall’individualismo indifferente nasce il culto dell’opulenza, cui corrisponde la cultura dello scarto nella quale siamo tutti immersi […]. E così oggi abbiamo davanti agli occhi l’immagine di un’Europa ferita, per le tante prove del passato, ma anche per le crisi del presente, che non sembra più capace di fronteggiare con la vitalità energia di un tempo. Un’Europa un po’ stanca, pessimista, che si sente cinta d’assedio dalle novità che provengono da altri continenti».

Questo diceva il Papa il 25 novembre del 2014 nel Discorso al Consiglio d’Europa. Due anni dopo, nel maggio del 2016 – in occasione del conferimento del premio Carlo Magno – egli torna ad insistere sul fatto che da diverse parti si vede crescere «l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale,  dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali […]».

  1. È necessaria una “trasfusione di memoria”

E a questo punto il Papa si chiede: «Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?». Ebbene, a suo avviso, è esattamente un deficit di memoria che l’Europa vive ai nostri giorni. Per questo, il Papa si dichiara d’accordo con Elie Wiesel per il quale è di fondamentale rilevanza una “trasfusione di memoria”. «È necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati», nel caso specifico la voce dei Padri fondatori dell’Europa. Schumann, De Gasperi, Adenauer… Essi – afferma il Papa – seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che a poco a poco diventavano comuni». I Padri fondatori – insiste Papa Francesco – ci ricordano che l’Europa non è un insieme di regole da osservare, non un prontuario di protocolli e procedure da seguire. Essa è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere, o di pretese da rivendicare. All’origine dell’idea d’Europa «vi è la figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica, […] con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un’esperienza millenaria». Roma, con la sua vocazione all’universalità, è il simbolo di questa esperienza e per questo fu scelta come luogo di firma dei Trattati, poiché qui – ricordò il Ministro degli Affari Esteri olandese Luns – «furono gettate le basi politiche e sociali della nostra civiltà». Sta di fatto che il Papa dedica ampio spazio delle sue riflessioni ai padri dell’Europa «perché ci lasciassimo provocare dalle loro parole, dalla attualità del loro pensiero, dall’appassionato impegno per il bene comune che li ha caratterizzati, dalla certezza di essere parte di un’opera più grande delle loro persone e dalla ampiezza dell’ideale che li animava. Il loro denominatore comune era lo spirito di servizio, unito alla passione politica, e alla consapevolezza che «all’origine della civiltà europea si trova il cristianesimo», senza il quale i valori occidentali di dignità, libertà e giustizia risultano per lo più incomprensibili. «E ancor oggi – affermava San Giovanni Paolo II – l’anima dell’Europa rimane unita, perché, oltre alle sue origini comuni, vive gli identici valori cristiani e umani, come quelli della dignità della persona, del profondo sentimento della giustizia e della libertà, della laboriosità, dello spirito di iniziativa, dell’amore alla famiglia, del rispetto della vita, della tolleranza, del desiderio di cooperazione e di pace, che sono note che la caratterizzano». Nel nostro mondo multiculturale tali valori continueranno a trovare piena cittadinanza se sapranno mantenere il loro nesso vitale con la radice che li ha generati.

  1. È una storia bimillenaria quella che lega l’Europa al cristianesimo

Un anonimo autore del II secolo scrisse – si tratta della Lettera a Diogneto – che «i cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo». Ebbene, il compito dell’anima, commenta il Papa, è quello di sostenere il corpo, di esserne la coscienza e la memoria storica. E aggiunge che è «una storia bimillenaria quella che lega all’Europa al Cristianesimo. Una storia non priva di conflitti e di errori, anche di peccati; ma sempre animata dal desiderio di costruire per il bene. Lo vediamo nella bellezza delle nostre città, e più ancora in quella delle molteplici opere di carità e di edificazione umana comune che costellano il continente. Questa storia, in gran parte, è ancora da scrivere. Essa è il nostro presente e anche il nostro futuro. Essa è la nostra identità. E l’Europa ha fortemente bisogno di riscoprire il suo volto per crescere, secondo lo spirito dei suoi Padri fondatori, nella pace e nella concordia, poiché essa stessa non ancora esente dai conflitti […]. È giunta l’ora di costruire insieme l’Europa che ruota non intorno all’economia, ma intorno alla sacralità della persona umana, dei valori inalienabili; l’Europa che abbraccia con coraggio il suo passato e guarda con fiducia al suo futuro per vivere pienamente con speranza il suo presente. È giunto il momento di abbandonare l’idea di un’Europa impaurita e piegata su se stessa per suscitare promuovere l’Europa protagonista, portatrice di scienza, di arte, di musica, di valori umani e anche di fede. L’Europa che contempla il cielo e persegue degli ideali; l’Europa che guarda e difende e tutela l’uomo; l’Europa che cammina sulla terra sicura e salda, prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità!». È l’idea di persona – sacra, inviolabile, libera, creatrice, responsabile, aperta alla trascendenza e solidale con il prossimo, ma anche fallibile e non esente dal peccato – senza la quale l’Europa, e più ampiamente l’Occidente, non sarebbe quello che è stato e quello che è. In che cosa consistono le leggi dello Stato di diritto se non in una rete protettiva della dignità della persona? E la verità è che, allorché crolla la fede nella persona concepita come fine, vengono travolte e violate tutte le norme dello Stato di diritto: la persona diventa un oggetto di sfruttamento economico, un oggetto che il potente può schiacciare per soddisfare la bramosia di potere, un corpo da acquistare e usare a piacimento a poco prezzo, quando da non strapparne ed utilizzarne pezzi per la vita di chi può?

  1. Le tante ferite alla dignità della persona

E sulle ferite inflitte alla persona umana Papa Francesco ha posto la sua vigile attenzione sin dai primi attimi del suo pontificato. Di quale dignità della persona è mai possibile parlare in tutte quelle sconfinate situazioni in cui gli esseri umani sono trattati come oggetti, che «possono essere buttati via quando non servono più, perché diventati deboli, malati o vecchi?». E ancora: «Quale dignità esiste quando manca la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero o di professare senza costrizione la propria fede religiosa? Quale dignità è possibile senza una cornice giuridica chiara, che limiti il dominio della forza e faccia prevalere la legge sulla tirannia del potere? Quale dignità può mai avere un uomo o una donna fatto oggetto di ogni genere di discriminazione? Quale dignità potrà mai trovare una persona che non ha il cibo o il minimo essenziale per vivere e, peggio ancora, che non ha il lavoro che lo unge di dignità?».

Come ha scritto il cardinale Pietro Parolin nella Presentazione del libro, Papa Francesco invita a guardare avanti e a «discernere le strade della speranza». Ed ecco, dice il Papa, che «alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante». E «con la mente e con il cuore – egli dice – con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, un costante cammino di cui servono memoria, coraggio e umana utopia».

Questo è il sogno di Francesco: «Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranza di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggiore impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».

  1. Quando l’Europa ritrova la speranza

In un simile orizzonte, con un deciso ritorno alle radici cristiane da cui è sorta, l’Europa tornerà a rifiorire. L’Europa, dice il Papa, ritrova speranza quando l’uomo è il centro e il cuore delle sue istituzioni; e quando nella solidarietà riesce a sconfiggere quei populismi che sgorgano proprio dall’egoismo e che chiudono gruppi umani nei limiti soffocanti dei propri pensieri e del proprio “particulare”. L’Europa, prosegue il Papa, ritrova speranze quando non si chiude nelle proprie sicurezze; quando investe nello sviluppo e nella pace. Lo sviluppo non è dato da un insieme di tecniche produttive. Esso riguarda tutto l’essere umano: la dignità del suo lavoro, condizione di vita adeguate, la possibilità di accedere all’istruzione e alle necessarie cure mediche. «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace», affermava Paolo VI, poiché non c’è vera pace quando ci sono persone emarginate o costrette a vivere nella miseria. Non c’è pace laddove manca lavoro o la prospettiva di un salario dignitoso. Non c’è pace nelle periferie delle nostre città, nelle quali dilagano droga e violenza». E, infine, «l’Europa ritrova speranza quando si apre al futuro. Quando si apre ai giovani, offrendo loro prospettive serie di educazione, reali possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. Quando investe nella famiglia, che è la prima e fondamentale cellula della società. Quando rispetta la coscienza e gli ideali dei suoi cittadini. Quando garantisce la possibilità di fare figli, senza la paura di non poterli mantenere. Quando difende la vita in tutta la sua sacralità».

  1. Per San Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone

Il mondo moderno e i nostri giorni sono sostanzialmente dominati – secondo Alasdair MacIntyre – dal progetto illuministico basato sui due pilastri dell’esaltazione delle arbitrarie preferenze dell’individuo e la cancellazione di ogni etica di natura comunitaristica. E sebbene consapevole del fatto che è sempre rischioso tracciare paralleli troppo precisi tra un’epoca storica e un’altra, MacIntyre è convinto che esistano certi parallelismi tra la nostra epoca in Europa e nel Nordamerica e l’epoca in cui l’Impero Romano declinava verso i secoli oscuri.

Scrive MacIntyre: «Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi i secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione della virtù è stata in grado di sopravvivere agli errori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte della nostra difficoltà. Stiamo aspettando non Godot, ma un altro san Benedetto, senza dubbio molto diverso».

Sin qui MacIntyre. Ed ecco la domanda che Papa Francesco si pone nel discorso Ai partecipanti della conferenza “(Re) thinking Europe” (28 ottobre 2017): Quale è la responsabilità dei cristiani in un tempo in cui il volto dell’Europa è sempre più connotato da una pluralità di culture e di religioni, mentre per molti il cristianesimo è percepito come un elemento del passato, lontano ed estraneo? O, in altri termini, che senso ha parlare di un contributo cristiano al futuro dell’Europa; quale, insomma, il nostro compito come cristiani, oggi, in queste terre così riccamente plasmate nel corso dei secoli della fede?

Fu nel tramonto della civiltà antica, mentre le glorie di Roma si rovesciano in rovine e mentre nuovi popoli premevano ai confini, un giovane – Benedetto da Norcia – fece riecheggiare, ricorda Papa Francesco, la voce del salmista: «Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?». San Benedetto – precisa il Santo Padre – «non bada alla condizione sociale, né alla ricchezza, né al potere detenuto. Egli fa appello alla natura comune di ogni essere umano, che, qualunque sia la sua condizione, brama certamente la vita e desidera giorni felici. Per Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone. È proprio questo uno dei valori fondamentali che il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di Dio. A partire da tale principio si costruiranno i monasteri, che diverranno nel tempo culla della rinascita umana, culturale, religiosa ed anche economica del continente».

È così, allora, che – per il Papa – «il primo, e forse più grande, contributo che i cristiani possono portare all’Europa di oggi è ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone. Purtroppo, si nota come spesso qualunque dibattito si riduca facilmente ad una discussione di cifre. Non ci sono i cittadini, ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci sono le quote. Non ci sono lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci sono i poveri, ci sono le soglie di povertà. Il concreto della persona umana è così ridotto ad un principio astratto, più comodo e tranquillizzante. Se ne comprende la ragione: le persone hanno volti, ci obbligano ad una responsabilità reale, fattiva, “personale”; le cifre ci occupano con ragionamenti, anche utili ed importanti, ma rimarranno sempre senz’anima. Ci offrono l’alibi di un disimpegno, perché non ci toccano mai nella carne».

E va da sé che riconoscere che l’altro è innanzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a lui. In breve: «L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità». Di qui, il fatto che «il secondo contributo che i cristiani possono apportare al futuro dell’Europa è la riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità». In sintesi: «Persona e comunità sono dunque le fondamenta dell’Europa che come cristiani vogliamo e possiamo contribuire a costruire. I mattoni di tale edificio si chiamano: dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e pace».

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