Al giorno d’oggi ci si lamenta spesso che il diritto e l’economia politica non tengono il passo degli eventi, non forniscono alcun contributo formativo e non costituiscono più una forza intellettuale. Ignorare tali critiche vuol dire non riuscire a rendersi completamente conto della gravità della situazione, dato che è vero che in Germania queste due scienze non esercitano più alcuna influenza rilevante sulle decisioni fondamentali di natura politico-giuridica ed economica.
Con queste parole i giuristi Franz Böhm, Hans Grossmann-Dörth e l’economista Walter Eucken introdussero il celebre Manifesto Ordoliberale del 1936, intitolato “Il nostro compito”. Erano anni di profonda crisi, un ordine politico-economico stava crollando, l’antica e gloriosa Europa aveva scelto il giogo totalitario, l’urlo straziante della “volontà di potenza” appariva l’ultima risorsa di un continente culturalmente agonizzante, colmo di arroganza e ricurvo su se stesso. Gli ordoliberali coltivavano la convinzione politica, suffragata da ipotesi scientificamente argomentate, che la crisi non fosse il prodotto necessario di una “Storia”, antropomorficamente intesa, la quale ad un certo punto del suo scorrere avrebbe voltato la faccia all’ideale di libertà. La libertà per i nostri autori assume rilevanza civile quando si concretizza in istituzioni politiche, economiche e culturali che la rendono effettiva, praticabile, criticabile e migliorabile. Dunque, certo contingente, storicamente connotata, ma, proprio per questo motivo, aperta ai tentativi riformatori. L’elaborazione teorica nel campo della politica, del diritto e dell’economia è per i nostri una sorta di perenne “battaglia per la libertà”, contro l’idea che la storia sia governata dalla necessità e che compito dello scienziato sia quello di “canonizzare” il contingente, arrendersi alle presunte “forze maggiori”, offrendo una valida giustificazione: evidentemente, quella che accarezza le “ragioni” del Principe.
Lo stato comatoso della vecchia Europa era registrato dagli ordoliberali come lo stato comatoso nel quale versavano le scienze sociali così come erano praticate nella Germania a cavallo tra il Diciannovesimo ed il Ventesimo secolo. In particolare, sul fronte della scienza economica, Eucken denuncia l’egemonia della Scuola Storica, con il suo fardello storicistico. La Scuola storica dell’economia, avrà modo di scrivere Eucken nell’edizione del 1951 nei suoi I fondamenti della economia politica (1939), è ateorica nell’ambito dell’economia politica e arbitraria nel campo della politica economica. Una scienza che si mostra rinunciataria rispetto alla possibilità di andare oltre i confini del conosciuto, che assume la situazione problematica non come il punto di partenza da sottoporre al fuoco di fila delle critiche, per cogliere le possibili ragioni del come e del perché del darsi dei fenomeni sociali, bensì come il dato ultimo e rivelato da giustificare, offrendo su di un piatto d’argento (la presunta autorità accademica) le “buone ragioni” che ne consolidino le istituzioni, non solo smette di essere scienza, ma si perverte in arma letale contro la libertà. Diventa un nobile strumento di distruzione nelle mani di uomini che coltivano il culto della loro onnipotenza e della loro onniscienza. Uno strumento finalizzato alla progressiva demolizione di quelle istituzioni per l’edificazione delle quali, nei secoli, una moltitudine di donne e di uomini, persuasi della loro ignoranza e della loro fallibilità, perseguendo il bene proprio e dei propri cari, hanno contribuito in modo anonimo e spesso non intenzionale al loro sorgere. Ecco, dunque, la posta in gioco denunciata dai padri dell’ordoliberalismo. Nulla a che vedere con la riedizione di una tanto ciclica quanto onorevole “disputa sul metodo”, ma la consapevolezza del ruolo civile che gli scienziati sociali possono ricoprire per la difesa della libertà – dunque, delle sue istituzioni – nel momento stesso in cui svolgono il loro ordinario mestiere: porre domande, criticare l’esistente, tentare di falsificare tesi consolidate. Sono le domande fondamentali che ci consentono di comprendere meglio, di penetrare più a fondo e di imparare dalla realtà più di quanto non ci consentano i dogmi dello storicismo, con le sue ragioni di stato, di razza o di partito.
Anche oggi viviamo tempi difficili, una crisi nella quale siamo talmente immersi che può capitarci di non coglierne i reali contorni. Il Social Market Economy Research Group intende sviluppare una riflessione sulle scienze sociali assumendo come prospettiva teorica l’ordoliberalismo, ovvero quel liberalismo delle regole che sin dalla metà degli Anni Trenta seppe raccogliere intorno ai circoli e all’Università di Friburgo personalità eminenti della resistenza al nazismo. Senza alcun improprio e ridicolo paragone, facciamo nostro uno dei tanti appelli di Luigi Sturzo:
la battaglia per la libertà non ha mai fine.
Per questa ragione, crediamo che anche nel migliore dei mondi possibili (supponiamo che il nostro lo sia) sia indispensabile tenere alta la guardia contro i tentativi di abbattere le istituzioni liberali. Certo, una demolizione che si realizza un po’ alla volta, magari anche con il concorso del sorriso accattivante di qualche bel volto a tutti noto e per questo motivo particolarmente rassicurante.
Il Social Market Economy Research Group intende perciò offrire all’opinione pubblica la propria riflessione scientifica, aggredendo le problematiche tipiche dell’ordine sociale sotto il profilo epistemologico, filosofico, economico, storiografico, politologico e giuridico, prestando particolare attenzione al magistero sociale della Chiesa cattolica.
L’attualità dell’analisi e del metodo suggeriti dagli ordoliberali è testimoniata anche dal fatto che oggi, come negli Anni Trenta del secolo scorso, si avverte l’esigenza di riflettere sui fallimenti del sistema economico e sociale nel quale viviamo. In questo senso, se l’ordoliberalismo muoveva dall’analisi dei fallimenti dell’esperienza della Repubblica di Weimar, pensiamo che la crisi che ha colpito l’economia globale, stravolgendo gli equilibri della struttura economica e sociale, oltre a quelli geopolitici affermatisi all’indomani della fine della seconda guerra mondiale offra l’opportunità di ripensare le ragioni dello sviluppo, al fine di contribuire alla proposizione di un modello di “sviluppo integrale” in grado di rappresentare un criterio per l’azione civile coerente con la prospettiva antropologica proposta dalla Dottrina sociale delle Chiesa.
Il “capitalismo”, “l’economia d’impresa”, “l’economia di mercato” o, più semplicemente, “l’economia libera” (vedi Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 42) affinché possano essere considerati la forma economica di un sistema sociale verso cui tendere, ha bisogno di riconoscere “il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia”. In definitiva, una libertà che, nel settore dell’economia,
deve inquadrarsi in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale, una libertà responsabile il cui centro è etico e religioso
come insegnava Giovanni Paolo II nel brano della Centesimus annus appena richiamato.
L’ordoliberalismo ha rappresentato una critica sia al laissez-faire sia al collettivismo. Al primo, infatti, andrebbe rimproverata l’eccessiva fiducia sulle capacità autoregolative del mercato che, nell’esperienza del capitalismo globale, ha condotto a trascurare la necessità di un apparato di regole in grado di mantenere il sistema in un equilibrio non solo economicamente, ma anche politicamente e giuridicamente desiderabile. Al secondo, invece, l’utilizzo del metodo “burocratico” per la gestione dei processi economici, circostanza questa che, a lungo andare, condurrebbe alla progressiva trasformazione dello Stato in senso totalitario.
La traduzione positiva di tali critiche è rappresentata dal concetto di “costituzione economica” da cui scaturisce una chiara proposta istituzionale che corrisponde a una precisa scelta di politica economica riguardante l’assetto fondamentale dei rapporti economici che, una volta formalizzata nel testo costituzionale, è in grado di inquadrare l’azione dei pubblici poteri e, in definitiva, l’intero ordine sociale.
Il modello di economia di mercato vede i privati e i pubblici poteri in costante rapporto dove, pur essendo chiaro che il processo economico deve restare estraneo alle decisioni pubbliche e rimesso all’autonomia dei privati, viene assegnato alla concorrenza la disciplina del processo economico e allo Stato il ruolo di garante della correttezza del processo concorrenziale.
La costituzione economica deve trovare attuazione mediante una legislazione concorrenziale resa effettiva attraverso un’attività amministrativa caratterizzata dall’assenza di poteri discrezionali e una giurisdizionale estesa alla verifica del procedimento applicativo della legislazione e non alla sola legittimità amministrativa. In questo contesto, la funzione amministrativa e, di conseguenza, i confini assegnati al sindacato giurisdizionale sulle scelte della pubblica amministrazione, delineano un innovativo modello di amministrazione che, slegata dal sistema della rappresentanza politica, è chiamata a dare attuazione alla costituzione economica non mediante l’adozione di scelte discrezionali, bensì attraverso l’esercizio di poteri “arbitrali” che la collocano in posizione di soggetto terzo rispetto agli interessi in gioco. In altri termini, un’amministrazione chiamata a dare effettività ad un assetto di interessi (pre)definito in sede costituzionale rispetto al quale ai pubblici poteri, in sede applicativa, non è concesso alcun ulteriore margine di valutazione o ponderazione con riferimento al caso concreto.
Inoltre, nel liberalismo delle regole è centrale il tema della sussidiarietà sia nel rapporto tra pubblici poteri e mercato, sia nell’organizzazione dell’apparato burocratico. Gli autori ordoliberali erano ben consapevoli del fatto che tra lo Stato e ogni singolo individuo c’è sempre una comunità, una serie di corpi intermedi all’interno dei quali ogni singolo individuo entra in relazione con altri, dando vita ad un complesso sistema relazionale. In questo senso, solo la sussidiarietà applicata anche al diritto permette allo stesso di articolare la società, cogliendone la complessità. Un apparato burocratico ispirato alla sussidiarietà allude all’idea di un’amministrazione capace, da un lato, di organizzarsi in modo tale da essere il più possibile vicino al cittadino e da non comprimere la libera iniziativa degli individui e dei corpi sociali intermedi, dall’altro, di perseguire l’interesse pubblico nel rispetto delle prerogative dei singoli, senza abusare della propria autorità riconosciuta dall’ordinamento solo ed esclusivamente in quanto funzionale allo svolgimento delle finalità indicate dalla legge. È evidente, quindi, che parlare di amministrazione pubblica sussidiaria significa porre in discussione sia il profilo organizzativo che quello funzionale di un sistema burocratico. Dal punto di vista dell’organizzazione della pubblica amministrazione, l’applicazione della sussidiarietà non significa semplicisticamente decentramento e snellimento dell’apparato burocratico, bensì ridefinizione dello stesso a partire dalla società civile. Per questo motivo, l’applicazione della costituzione economica passa anche attraverso delle politiche fiscali capaci di “finanziare la libertà” e promuovere, nel rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale, effetti redistributivi del reddito mediante il contributo diretto delle istituzioni della società civile, il cui funzionamento, pur svolgendosi al di fuori del mercato e prescindendo dalle sue logiche, rappresenta uno strumento essenziale per garantire quel livello di coesione sociale senza il quale neanche il mercato può, a lungo andare, funzionare.
Il liberalismo delle regole, quale condizione essenziale per uno sviluppo integrale, fa proprie queste proposte che, tuttavia, devono essere sempre aggiornate e riviste alla luce del nuovo rapporto tra società e diritto che si va affermando per effetto della globalizzazione. In particolare, quel rapporto tra pubblici poteri e privati deve oggi fare i conti con il carattere globale delle problematiche che investono la società civile. E ciò ha evidenti ripercussioni in ambito economico.
L’ordoliberalismo presuppone e difende una circolarità fra forme e sostanza democratica, non distinguendo la seconda come esclusiva latrice di assunti valoriali e non conferendo alle prime la potestà di regolare, ovvero di ignorare, spesso senz’appello, tutta una serie di elementi prepolitici e culturali che materialmente contribuiscono alla tenuta della democrazia stessa.
Avviene così che, al di là di qualsiasi classificazione che interpreti pur autorevoli possono attribuire ai diversi modelli democratici, essi mantengono per gli ordoliberali una loro significativa identità nel perpetuare storicamente la reciprocità del nesso tra libertà e responsabilità, cioè il fondamento antropologico irrinunciabile perché si diano autentico sviluppo umano, pace sociale e stato di diritto. Si noti a latere (ma non troppo) che medesime sono le conclusioni esposte da Luigi Sturzo nella sua vastissima attività scientifica e pubblicistica. Ravvisando la necessità di comporre nel pensiero sociale cristiano il metodo della libertà e il metodo della rappresentanza di matrice liberale come portati inscindibili, inattaccabili e irrinunciabili dal progresso spirituale e umano, egli altro non faceva che dirimere l’oramai secolare controversia fra le regole della democrazia e i comandamenti della fede, fondando la necessaria osservanza delle prime sulla naturale declinazione dei secondi. Se questa è banalmente una posizione di realismo (le cui fonti sarebbe interessante rintracciare con più sistematicità, come peraltro faranno alcuni dei contributi contenuti nel presente Annale), sono allora le dimensioni utopiche e semirazionali della teoria politica quelle su cui ricadranno le maggiori critiche portate avanti dall’ordoliberalismo. Un caso tutto da esaminare, a tal proposito, è quello recente della c.d. democrazia deliberativa, innovativo paradigma di studi che ha riscosso una considerevole attenzione da parte di osservatori e di commentatori, sollecitando alcuni addirittura a veri e propri endorsement nei suoi confronti.
Ebbene, è evidente come una teoria politica che pretenda di fondarsi esclusivamente su una prassi comunicativa sia destinata a obliare la sostanza democratica in nome della forma – la deliberazione, appunto; o, viceversa, a ridurre le procedure a una ratificazione di quella “forza del miglior argomento” che costituisce il fondo di questo modello. Il paradosso sta nel fatto che le procedure veramente democratiche vanno ben al di là del riconoscimento dei diritti della maggioranza: esse garantiscono sempre e comunque il diritto al dissenso della(e) minoranza(e): la ricerca del doveroso consenso sul legittimo dissenso; qui si corre invece il rischio di “sacralizzare” la decisione risultante dal processo deliberativo che, solo, potrebbe validarne la bontà o meglio la legittimità. Pertanto, recuperare la tradizione degli universali procedurali, le regole minime di funzionamento della democrazia rappresentativa così come codificate dalla scienza politica più avvertita, accanto a una degna considerazione della irriducibilità degli argomenti meta- e pre- politici (quali ad esempio i diritti umani, a partire dal diritto alla vita, passando per quello alla libertà economica e d’intrapresa, alla partecipazione politica e così via…) ci sembra sia la strada indicata anche dal liberalismo delle regole per provare a fornire soluzioni, pur storicamente contingenti, di fronte alla complessità dei problemi che attanagliano (ma anche stimolano) il nostro tempo.
Il Social Market Economy Research Group, partendo dalla declinazione delle riflessioni ordoliberali nella realtà attuale, vuole contribuire a ravvivare il dibattito politico proponendo riflessioni e policy coerenti con il nuovo contesto socio-economico, culturale e valoriale che fa da sfondo alla nostra quotidianità. Che senso può avere parlare di costituzione economica in un contesto economico globale? In che modo garantire e rendere effettivo il processo concorrenziale in ambito sovranazionale, rispettando il principio di sussidiarietà e di poliarchia? Come costruire una democrazia inclusiva? Sono queste alcune delle domande a cui intendiamo dare risposte concrete.