Giovanni Marcotullio/Aleteia Italia | Ago 25, 2017
The Economist annuncia la grande svolta e tutti si mettono a scrivere di come finalmente si possano “servire Dio e mammona”. Ma è proprio così? Lo abbiamo chiesto al professor Flavio Felice, ordinario di Storia delle dottrine politiche
Che cosa sono gli “investimenti a impatto sociale”?
Iniziamo con il dire che non esiste “investimento” che non abbia un “impatto sociale”. L’idea che esistano “investimenti sociali” e altri a “impatto neutro” è la conseguenza di un modo di intendere il mestiere dello scienziato sociale avulso dalla realtà. Secondo una certa impostazione le scienze sociali – di qui anche l’economia – sarebbero discipline socialmente ed eticamente neutre e il compito dello scienziato sociale sarebbe riconducibile a quella dell’analista in camice bianco. È la pretesa di pensare le scienze – comprese le scienze sociali – confinate in un mondo privo di valori, credenze, fedi, tradizioni; in breve, la proiezione della scienza come luogo eticamente neutro, laboratorio asettico, popolato da ricercatori in candide vesti i quali prescindono da una peculiare prospettiva antropologica che orienti le loro scelte. Di qui la reazione di chi invece ritiene che non esista azione umana che non esprima una peculiare prospettiva antropologica, condivisibile o meno, e che, di conseguenza, anche le scienze sociali e, non ultima l’economia, partecipi di tale condizione e che lo scienziato economico non possa disinteressarsene. Da tale consapevolezza è maturata anche l’esigenza di offrire prodotti finanziari che rispondano immediatamente al bisogno di vedere l’impatto che le proprie scelte hanno sulla realtà sociale. Ebbene, tali prodotti vengono normalmente definiti “investimenti etici”, ma in concreto non esistono investimenti che non abbiano un impatto etico, più o meno condivisibile.
Sembra l’uovo di Colombo: perché ci si pensa solo adesso?
A dire il vero, i padri francescani sin dal XIV secolo si erano posti il problema e la successiva nascita dei “monti di pietà” (si pensi al primo Monte fondato nel 1462 da Fra’ Barnaba Manassei da Terni) sta lì a dimostrare che il problema dell’impatto sociale dell’azione economica è un tema antico e molto sentito all’interno della comunità ecclesiale. Il fatto che oggi sia decisamente più diffuso o semplicemente avvertito come più urgente credo dipenda dalla dimensione che l’economia finanziaria ha assunto nei nostri giorni. La finanza è un utilissimo strumento per tutti coloro che non hanno risorse proprie e consente di realizzare opere impensabili a partire dalle risorse individuali. Il capitalismo contemporaneo è soprattutto capitalismo finanziario perché c’è bisogno di una enorme massa di ricchezza per operare sul mercato globale. Un’economia tribale e di sussistenza non necessiterebbero della finanza, se non i maniera marginale e residuale, eventualmente per far fronte a qualche evento sfortunato che potrebbe compromettere la sussistenza della tribù. Un’economia globale e che intende essere inclusiva necessita di un sistema finanziario ampio e dinamico, di istituzioni finanziarie capillari, al servizio di una produzione necessariamente sempre più ampia e qualitativamente migliore. Per questa ragione, coloro che hanno a cuore non meramente la crescita economica, ma un crescita che sia qualitativamente inclusiva: in breve, ciò che il Magistero sociale della Chiesa chiama “sviluppo umano integrale”, non possono non mostrarsi attenti allo strumento finanziario e promuoverne le istituzioni che lo orientano nella direzione appena indicata.
Sembra “troppo bello per essere vero”: c’è una rogna da qualche parte?
La domanda è interessante, lei mi chiede se esistono effetti perversi nel campo del cosiddetto investimento etico o zone d’ombra nel campo della finanza etica. In ogni realizzazione umana esistono zone d’ombra e ogni istituzione sociale riflette il dato inconfutabile che il “sociale” è la “proiezione multipla, simultanea e continuativa” dell’azione umana (è la definizione che Luigi Sturzo ci offre di società). Si tratta di un tema arcinoto agli esperti di scienze sociali e che i filosofi della scienza chiamano “teoria delle conseguenze non intenzionali”, “eterogenesi dei fini”, ma che incontra anche un problema sollevato da buona parte della filosofia cristiana, sintetizzabile con l’espressione “antiperfettismo”. Antonio Rosmini e Luigi Sturzo ne sono stati eminenti teorici e Giovanni Paolo II ha avuto il merito di cristallizzarlo in un passaggio chiave della Centesimus annus: «Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un’organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla» (C.A., 25). Anche nel caso degli investimenti etici non mancano le zone d’ombra, gli effetti perversi e, soprattutto, l’uso strumentale, opportunistico, dunque, perverso dello strumento. È prevalsa l’idea che “ad essere etici si guadagna”, quindi l’ostentazione di una presunta dimensione etica è diventata un aspetto del marketing aziendale, sia che si tratti di beni di consumo sia che si tratti di prodotti finanziari. È evidente che tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’etica cristiana, forse soddisferà altri parametri etici, ma non di certo quelli della Dottrina sociale della Chiesa. Per il cristiano lo “sviluppo” o è “integrale”, interessando l’intera sfera dell’umano, o non è affatto “sviluppo” e la riduzione etica a strumento comunicativo e di marketing allontana la finanza etica dal campo che interessa la Dottrina sociale della Chiesa.
“Profitto e solidarietà” vuol dire che “la solidarietà conviene”? E allora perché non tutti sono solidali?
Appunto, è esattamente questo il problema. Il profitto è solo un indicatore del buon impiego dei fattori di produzione, non certo l’unico, ma come ci insegna la Centesimus annus. In questi termini, la funzione economica e sociale del profitto, che possiamo schematizzare come premio per il rischio, fonte di capitale per finanziare l’occupazione di domani, fonte di capitale per l’innovazione e l’espansione dell’economia, si comprende meglio se associata alla dinamica tipica dell’uomo d’impresa, il quale, ci fa notare opportunamente Drucker, esercita la funzione imprenditoriale mediante la quotidiana e sistematica attività decisionale, con la maggior conoscenza possibile del futuro incerto, organizzando in modo sistematico gli sforzi necessari per realizzare quelle decisioni ed infine confrontando i risultati con le aspettative. La nozione di profitto che informa le parole della Centesimus annus può essere espressa sotto forma di parametro indispensabile per la misurazione della soddisfazione del cliente, nell’ambito di un variegato contesto nel quale si confrontano ed articolano i valori, le fedi e le culture di tutti coloro che concorrono al buon esito del processo produttivo, coordinati da chi si assume il ragionevole rischio imprenditoriale di investire il proprio denaro, il proprio tempo e la propria reputazione per porre in essere un’organizzazione del lavoro produttivo. Ecco, infatti, come si esprime l’enciclica, «quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati e i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti» (C.A., 35). Quindi, il profitto non dipende necessariamente dalla solidarietà e comunque non basta essere mossi dalle migliori intenzioni. Bisogna conoscere il mercato, saperlo soddisfare e farlo bene; come ebbe a sostenere Peter Drucker: «se è vero che non è sufficiente che l’impresa faccia bene, ma deve anche fare il bene, è vero anche che per poter fare il bene deve aver fatto bene».
Una beneficenza in cui qualcuno guadagna è una beneficenza in cui diventa ingiusto che qualcuno perda: che posto resta per la gratuità?
San Bernardino da Siena affermava che “se è legittimo perdere, deve essere legittimo vincere” e giungeva alla conclusione che per fabbricanti e commercianti è legittimo ottenere un profitto. Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizzava anche il Vescovo di Firenze Sant’Antonino, il quale affermava che “Poiché ogni agente opera per ottenere un fine, lo scopo immediato dell’uomo che lavora nel settore dell’agricoltura, della lana, dell’industria o ti attività simili è il profitto”. Per San Tommaso tra i motivi che giustificano i profitti dobbiamo considerarne fondamentalmente cinque: provvedere alla famiglia del mercante; aiutare i poveri; stimolare il benessere del paese; remunerare il lavoro del mercante; migliorare la merce. Insomma, il problema del profitto è risolto da secoli e alla radice. Quanto alla questione della gratuità legata al tema del profitto, essa è diventata centrale nel Magistero sociale della Chiesa in seguito alla pubblicazione della Caritas in veritate di Benedetto XVI nel 2009. La categoria del “dono” non andrebbe assunta come alternativa al mercato, una sorta di fattore o quid etico che si contrappone al mercato e in grado di limitarlo, bensì come una qualità interiore di coloro che operano sui mercati. Sulla scorta di quanto detto in ordine alla cifra qualitativa dello sviluppo, il dono appare come quella indispensabile dimensione del vivere che rende autenticamente umani i rapporti e, di conseguenze, autenticamente umana l’esistenza. Sappiamo bene che la vita degli uomini non si risolve nel mercato e l’esperienza del dono ci consente di constatare direttamente – sulla nostra pelle – la parzialità della logica del mercato, ma relegare il mercato tra le relazioni utilitaristiche, oltre ad essere un errore logico e storico, appare sempre più un errore pratico e, alla lunga, potrebbe risolversi in un errore politico. La catallassi, il mercato, è la tipologia sociale propria degli uomini liberi che consapevolmente cum-petono per ottenere il miglior risultato possibile, in ordine all’allocazione di beni scarsi e disponibili; ciò che non è scarso e non è disponibile – in breve, ciò che non è puramente economico – evidentemente non entra e non deve entrare nella logica di mercato. In pratica, significa ammettere che si possa dare una crescita senza lo sviluppo, perché esiste un profitto di monopolio, un profitto di guerra; perché esiste il profitto di chi pretende di raccogliere senza aver prima seminato, di chi si approfitta delle strette relazioni con il potere, di chi devasta la terra, di chi traffica in droga e in armi; perché esiste un profitto di chi consuma in modo dissennato le ricchezze prodotte dalle generazioni precedenti e di chi scarica i costi del presente sulle generazioni future. In definitiva, affrancati dall’insano fuoco dell’ideologia, perché esistono persone che operano in politica come in economia e in qualsiasi altro ambito del vivere civile mosse dall’irresponsabile proposizione “ad ogni costo e a qualsiasi prezzo”.
Dicono che il Catholic Relief Services abbia “una visione moderna del ruolo della Chiesa nella società”: che vuol dire?
Non saprei, penso solo che se proseguisse l’opera dei padri francescani sarebbe già tanto. Papa Benedetto nella Caritas in veritate ci ha invitati a pensare ai fenomeni sociali e alle istituzioni adatte alla loro cura in maniera plurale; ci ha rinviati ai principi di sussidiarietà e di poliarchia, oltre che di solidarietà. Ossia, ci ha invitati a pensare la solidarietà all’interno di un contesto sociale poliarchico il cui unico possibile principio d’ordine è il principio di sussidiarietà. Tutti coloro che intendono ridurre il grado di poliarchia non possono che mostrarsi tendenzialmente autoritari e tutti coloro che intendono rispondere ai problemi di una società poliarchica, ricorrendo a strumenti centralistici finiscono per offrire risposte inadeguate. Quindi abbiamo bisogno di una pluralità di strumenti, di una ibridizzazione dei modelli e di rifiutare in tutti i modi gli eventuali tentativi di monopolizzare la solidarietà. Il monopolio desertifica tutto quello che incontra, trasforma l’amore in possesso e la solidarietà in rendita. Per questa ragione, affinché le istituzioni economiche, politiche e culturali possano essere realmente “inclusive” e spezzare le catene della povertà è necessario che siano plurali, che nascano da un processo competitivo e che rimangano sempre scalabili.