Flavio Felice
“L’Osservatore Romano”, 4 luglio 2018
Il documento della Congregazione per la dottrina della fede e del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale Oeconomicae et pecuniariae quaestiones, che ha ottenuto l’approvazione di Papa Francesco ed è stato presentato il 17 maggio presso la sala stampa della Santa Sede, ha come oggetto alcune “considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario”.
Un tratto fondamentale consiste nella rappresentazione della scienza economica, in quanto scienza sociale, essenzialmente come una scienza umana. Una disciplina che, sebbene sia opportuno che si avvalga delle più sofisticate metodiche che l’epistemologia contemporanea oggi è in grado di offrire, è bene non rinunci mai al proprio statuto: l’uomo in azione in società; un uomo imperfetto, ignorante e fallibile, in un mondo di risorse tangibili e intangibili scarse. Una scienza economica così intesa non potrà mai evitare di considerare quella sottile linea di demarcazione che separa l’umano dal disumano e, nella misura in cui i suoi interpreti vorranno tener fede all’insegnamento degli stessi padri della disciplina (compresi gli antenati scolastici francescani e tardo-scolastici di Salamanca), dovranno promuovere, nella contingenza, una “riscossa dell’umano” che non avrà mai fine, almeno finché vivrà l’uomo.
Dunque, compito dell’economia, in questo contesto epistemologico di tipo relazionale e fallibilista, è ampliare o «riaprire gli orizzonti a quell’eccedenza di valori che sola permette all’uomo di ritrovare se stesso, di costruire società che siano ospitali e inclusive, in cui vi è spazio per i più deboli e in cui la ricchezza viene utilizzata anche a vantaggio di tutti. Insomma, luoghi in cui per l’uomo è bello vivere ed è facile sperare» (n. 17). A tal proposito, il documento offre un interessante spunto in merito alla natura dei “mercati”. Si afferma che i mercati, «prima ancora di reggersi su anonime dinamiche», «si fondano su relazioni» e che tali relazioni non potrebbero essere instaurate che nella libertà. È questo un tema ricorrente nella tradizione della dottrina sociale della Chiesa e Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, assumendo un tratto fondamentale della teoria della cosiddetta economia sociale di mercato, a esso hanno dedicato una parte essenziale del loro magistero.
Il mercato vive e prospera in forza delle virtù come l’onestà, la fiducia, la sympathy, ma non è in grado di crearle da solo; e, qualora dovesse promuoverle, lo farebbe solo nella misura in cui i soggetti che vi operano scelgono di vivere secondo virtù e, così facendo, per usare un argomento tipicamente smithiano, anche inintenzionalmente, finiscono per lubrificare i meccanismi del corpo sociale. Alla natura dei mercati, il documento collega quello di sviluppo umano. La questione fondamentale relativa al tema dello sviluppo umano integrale interessa la seguente domanda: come trasformare la natura, manifestando e accrescendo al tempo stesso la dignità dell’uomo in quanto uomo? Partiamo dal presupposto che dire “crescita” non significhi immediatamente dire “sviluppo”, perché esiste la crescita senza lo sviluppo (cfr. Papa Francesco, Evangelii gaudium). Abbiamo una crescita in barba alle regole, di coloro che approfittano della loro condizione di potere, di privilegio, di monopolio, di forza. Abbiamo un’idea di crescita che pretende di raccogliere senza aver prima seminato, che calpesta i diritti altrui, che devasta l’ambiente, assumendo l’espressione del tutto irresponsabile di “a ogni costo” come proprio imperativo categorico. In definitiva, abbiamo “crescita” e “crescita”. Quella che nasce dall’investimento produttivo, ad alto valore aggiunto, che richiede capitale umano di primissimo livello e formazione continua; un’idea di crescita che nel medio-lungo periodo ci consente di parlare di autentico sviluppo. Poi abbiamo una crescita che invece fa leva su prodotti a basso valore aggiunto, dove il capitale umano non riveste particolare importanza e la formazione e l’educazione risultano persino dei pesanti fardelli. È questa un’idea di crescita che, rapinando nel breve, compromette il futuro nostro e dei nostri figli.
In tal senso, la prospettiva che crediamo di desumere da Oeconomicae et pecuniariae quaestiones tenta di implementare un sistema incentrato sulla libera concorrenza, intesa come strumento sociale inclusivo al servizio della persona umana: ignorante, limitata e fallibile, in quanto nemica per definizione delle rendite di posizione e fautrice di un ordine basato sulla dignità di ciascuna persona, il cui merito si impone tanto sul favore quanto sull’abuso di potere. “Favore” e “abuso di potere” sono le due facce di un’unica medaglia, espressioni tipiche della società servile che instaurano un “neo-feudalesimo” in cui vecchie e nuove oligarchie estraggono per sé le risorse comuni, destinate a tutti, inibendo qualsiasi processo di inclusione.
In questo contesto si inserisce anche il tema del rigore. Una retorica consumata vorrebbe contrapposti e alternativi i termini “crescita” e “rigore”: un trade-off in forza del quale un incremento della crescita necessiterebbe di un alleggerimento delle politiche di rigore. In tale prospettiva, al contrario, anche crescita e rigore rappresentano le due facce di una comune medaglia. Il rigore, inteso come lotta serrata e continua alla corruzione, sobrietà della spesa pubblica, investimento selettivo altamente produttivo e severa verifica delle performance finanziarie e industriali, non è altro che il presupposto tecnico per l’innesco di un circuito virtuoso. Il tema di fondo è che non è sufficiente appellarsi retoricamente e alternativamente alla “crescita” e al “rigore”, quanto piuttosto qualificarli, individuando nell’ottimizzazione sistemica (politica, economica ed etico-culturale), che passa per la responsabilità personale, una leva fondamentale per una crescita economica che sia autentico sviluppo umano, in quanto inclusivo.
Nel paragrafo 13 dell’enciclica Lumen fidei, Papa Francesco richiama la definizione che il rabbino di Kock dà dell’idolatria: vi è idolatria «quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto». Il Papa precisa: «Invece della fede in Dio si preferisce adorare l’idolo, il cui volto si può fissare, la cui origine è nota perché fatto da noi. Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli “hanno bocca e non parlano” (Salmi, 115, 5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani».
Dunque, il principale nemico dello sviluppo integrale è l’idolatria. Idoli che si presentano con le vesti ordinarie e quotidiane del carrierismo, del successo professionale, del mors tua vita mea, di chi pretende di raccogliere senza aver seminato e di chi semina la morte per il proprio tornaconto. Sono gli idoli accattivanti e generalmente tollerati — perché un po’ tutti ci rappresentano — nei confronti dei quali si è solitamente più indulgenti e auto-assolutori. In breve, è un atteggiamento, una predisposizione, un comportamento che diventano costume, l’aria stessa che respiriamo che giunge a intossicare le nostre coscienze e a corrompere le istituzioni della democrazia e del mercato. È l’insana pretesa di essere assolti anche quando, “a ogni costo” e “a qualsiasi prezzo”, anteponiamo il nostro interesse immediato a quello del nostro prossimo, fosse anche qualcuno che deve ancora nascere o che vive dall’altra parte del mondo.