BONAVENTURA DA BAGNOREGIO

“Preferite sempre le opere necessarie alle meno utili, le migliori alle buone e le ottime alle migliori”

Oreste Bazzichi, Paolo Capitanucci

Teologo e filosofo, uomo d’azione e di contemplazione, Bonaventura (al se – colo Giovanni Fidanza), nasce a Civita (Bagnoregio), cittadina tra Viterbo e Orvieto, nell’antica Tuscia romana (1217 circa) e muore durante il II Concilio Ecumenico di Lione, assistito da Papa Gregorio X, il 15 luglio 1274. Fu canonizzato nel 1482 e dichiarato “Dottore della Chiesa” nel 1588. Egli riunisce lo spirito indagatore di sant’Agostino con l’affettività avvincente e l’ardore serafico di san Francesco, il cui misticismo sperimentale traduce in prospettiva teoretica. Il suo sistema filosofico-teologico-mistico è geniale, attento alla complessità del reale e alla sua articolazione dinamica. La sua opera si sviluppò, come per Tommaso, nel XIII secolo, epoca alla quale diede un rilevante contributo, incisivo anche a livello economico per aver teorizzato il valore del legame proprio del terreno etico, all’interno della teoria classica del valore d’uso e del valore di scambio. Dopo i primi anni della sua vita trascorsi nella città natia, nel 1235 si recò a Parigi e, dopo aver frequenta – to la facoltà delle Arti, nel 1243 bussò alle porte del convento francescano di quella città per essere accolto nella grande famiglia francescana, assumendo il nome di Bonaventura; seguirono gli studi teologici sotto la direzione di Alessandro di Hales (m. 1249), al qua – le rimase sempre legato. Dal 1248 al 1257 si dedicò all’insegnamento e le sue lezioni furono raccolte nei Commentaria in quattuor libros Sententiarum magistri Petri Lombardi, Episcopus Parisiensis (1250-1254). Il 2 febbraio 1257 venne eletto Ministro generale dell’Ordine, di cui, per le benemerenze acquisite in 17 anni di governo, è considerato come “secondo fondatore”. Il 18 maggio 1273 fu nominato cardinale, vescovo di Albano da Gregorio X, che gli chiese di preparare anche il II Concilio di Lione. Egli però non riuscì a vederne la conclusione, perché, dopo la IV sessione, nella mattina del 15 luglio 1274 morì. Fu sepolto nella chiesa dei francescani di Lione alla presenza dei padri conciliari, inclusa quella del papa. Fu canonizzato da Sisto IV il 14 aprile 1482, ed ebbe il riconoscimento di dottore della Chiesa (Doctor Seraphicus), affiancato a Tommaso, con la bolla di Sisto V Triumphantis Ecclesiae, 52 53 nel 1588. La grandezza della figura di san Bonaventura, che rende ragione del titolo di Doctor Seraphicus, non sfuggì a Dante che gli dedicò una delle più belle terzine (Paradiso, XII, 127-9). Il principio fondamentale della teologia francescana secondo Bona – ventura, poggia sull’assunto “bonun diffusivum sui”, cioè il bene ha in sé il germe della diffusione, come l’amore, altrimenti, se rimanesse chiuso in sé, resterebbe egoismo. Il fiat lux iniziale, ovvero la scintilla o la grande esplosione dell’origine dell’universo o il bing bang, come lo chiamano i cosmologi moderni, scandisce il summum bonum di Dio, che segna l’avvio della creazione del mondo (caritas creata), affidata all’uomo perché la coltivi e la custodisca (Gn 2,15). A questo proposito Bonaventura nella Legenda maggiore narra che Francesco Considerando che tutte le cose hanno un’origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora maggiore e chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella (LegM, VIII, 6, FF 1145). Questa riconciliazione universale con tutte le creature riportava Francesco allo stato di innocenza primitiva (ivi, VIII, 1, FF 1134). L’originalità del pensiero sociale di san Bonaventura è in sintonia con Francesco e con il pensiero e la sapienza francescana. Scrisse, infatti, che il creato è il primo “libro” che Dio ha aperto davanti ai nostri occhi, perché ammirandone la varietà ordinata fossimo ricondotti ad ascoltare la voce sinfonica del creato, che ci invita all’alterità, ad uscire dalle chiusure autoreferenziali per riscoprirci dono di Dio, fratelli tra noi, connessi con Cristo (Breviloquium, II, 5, 11). E in un altro passo chiarì come intendere la bellezza del creato: Per trarre da ogni cosa incitamento ad amare Dio, Francesco esultava per tutte quante le opere delle mani del Signore e, da quello spettacolo di gioia, risaliva alla Causa e Ragione che tutto fa vivere (fonte?, FF 1161). Ricollegandosi alle dottrine del De civitate Dei di Agostino, egli col – loca le questioni economiche, come gli eventi del suo tempo e i segni del destino spirituale delle generazioni e delle civiltà, nel quadro di un universale processo, pensato e guidato ab aeterno dalla suprema sapienza divina. Così, l’interpretazione francescana della storia è contenuta nelle Collationes in Hexaëmeron sive illuminationes Ecclesiae, dove egli ripresenta l’armonia delle conoscenze tra fides et ratio, tra filosofia e teologia, tra Dio e l’uomo, senza tuttavia attenuare le rispettive logiche, e interpretando l’una come sostegno dell’altra, o meglio, l’una nell’altra, e cioè, la filosofia nella teologia, la politica entro l’etica filosofica, questa entro l’etica teologica e su tale sfondo l’etica economica (cfr. Collatio XIX, 14). Quindi, al di là delle tematiche speculative come la teoria centrale della conoscenza o dell’illuminazione e quella delle idee divine come esemplari delle cose create detta “esemplarismo”, il messaggio bonaventuriano arriva direttamente all’a – nima dell’uomo anche negli aspetti riguardanti la vita sociale. È qui il suo segreto di pensatore e di mistico, che ha qualcosa da dire all’uomo moderno, che non sa più riconoscere la presenza di Dio nel creato e nel cuore della storia. Dal Cantico delle Creature Bonaventura trae la convinzione che il mondo è il capolavoro che Dio ha immaginato e voluto. Dio poteva non volerlo. Il che significa che il mondo è l’espressione della libertà creativa divina e suo dono; autentica manifestazione del suo amo – re gratuito. Questo dunque è uno dei grandi meriti di Bonaventura: aver sa – puto unire la fede all’apertura verso la realtà del mondo. Ciò spiega perché, a distanza di oltre settecento anni, il suo pensiero sia ancora operante nel con – testo filosofico-teologico e culturale del nostro tempo. L’analisi del termine avarizia (avidus-auri) e quindi nel senso classico di cupidigia (cupiditas), radice di tutti i mali, dopo il sorgere delle nuove forme di ricchezza, serve a Bonaventura per misurare gli atti economici secondo che fossero rivolti all’acquisizione dei beni “necessari” alla vita o a quelli “superflui”. Il “necessario” si correlava al “valore” morale dell’uomo rigenera – to dal battesimo, il “superfluo” al “non valore” dell’uomo naturale, schiavo del mondo e delle cose mondane. L’avarizia, perciò, diventa un concetto paradigmatico con il quale si misurava in concreto ogni atto mondano per giudicarne la legittimità morale. Di qui l’importanza dell’analisi di questo concetto anche ai fini della storia del pensiero economico. Bonaventura lo collegò a quello dell’usura, del profitto e della mercatura. Nel De superfluo egli sostiene che vi è una relazione diretta e stretta, univoca e funzionale tra “avarizia” e “superfluo”. Il superfluo, si de – finisce a partire dal bisogno reale dei soggetti, a sua volta riscontrato in re – lazione al ruolo socio-professionale dei medesimi. Nell’ambito dei criteri, la porpora, per esempio, è tipica di una identità sociale comunemente riconosciuta: se indossata solo per onorificenza, senza responsabilità di comando e senza carisma, diventa bene economi – co superfluo; se, invece, è determinata dall’oggettivo incarico professionale (communis consensus) diventa bene economico indispensabile. La teoria del “necessario”, essenziale per la stabilità dell’ordine sociale, non poteva essere senza conseguenze sugli altri aspetti e istituti della vita economica: proprietà privata, commercio, credito; paradossalmente diventa criterio di un’economia della sobrietà, che favorì il salto qualitativo dall’economia monastica all’uso razionale delle risorse per il bene vivere della comunità nel territorio. Anche Bonaventura ha lasciato, come Francesco nella Lettera ai reggi – tori dei popoli, un messaggio straordinario ai governanti, agli amministratori ed agli economisti, oggi di grande attualità: Preferite sempre le opere necessarie alle meno utili, le migliori alle buone e le ottime alle migliori, fatta eccezione delle opere necessarie e urgenti (cfr. Opusula, in Opera Omnia, t. VIII, p. 48).

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