“Il Sole 24 Ore”, 11 gennaio 2018
Flavio Felice – Luca Sandonà
In un’Italia caratterizzata da un profondo rancore e da una scarsa mobilità sociale, come recentemente rilevato dal Censis, emerge una disaffezione politica a cui i movimenti cosiddetti populistici spesso rispondono, proponendo ora una dose supplementare di interventismo statale, ora politiche contro gli immigrati, ora rispolverando il mai desueto complotto plutocratico-giudaico-massonico, nel rivendicare una maggiore giustizia sociale. Di fronte a tale scenario, la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa resta convinta che la politica, orientata al bene comune, costituisca, secondo la definizione di Paolo VI, “la più alta forma di carità”, la quale si esplica, in base a quanto affermato da Benedetto XVI, nella “via istituzionale”.
Di qui lo scetticismo, più volte espresso da Papa Francesco, di fronte a “soluzioni e proposte immediate” che potrebbero “bloccare il cammino” che, pur tra vette ed abissi, l’umanità ha intrapreso. Un cammino-processo che, in materia politico-economica, secondo Giovanni Paolo II, ma anche a parere di Papa Francesco, ha assunto la forma storica delle istituzioni politiche, economiche e culturali che delineano quel complesso sistema teorico che, con una certa dose di approssimazione, chiamiamo “economia sociale di mercato”. Istituzioni segnate dalla contingenza e dall’imperfezione di coloro che hanno contribuito a fondarle e quotidianamente le vivono ma, nel contempo, utili, se non indispensabili, per la convivenza e per la crescita morale di persone libere e responsabili.
Sulla base di quanto affermato, la sfida della Dottrina sociale della Chiesa ai populismi consiste nel rifuggire da soluzioni semplicistiche a problemi complessi; soluzioni che riducono la complessità della realtà contemporanea ad un principio unico, espresso dallo “Stato” e da quella specifica sfera nella quale esso opera e che chiamiamo “politica”.
Tale riduzionismo, sotto il profilo metodologico, non incrociando il contesto storico, il quale è tutt’altro che monistico, tende a “frammentare” il tempo, a negare il lungo periodo, se non a riconoscerlo come somma di brevi periodi, così come gli economisti americani Mario J. Rizzo e Gerald O’Driscoll nel loro saggio del 1996: L’economia del tempo e dell’ignoranza (Rubbettino, 2002), hanno efficacemente mostrato. Una serie di istantanee a sé stanti che impediscono di pensare il tempo nella dimensione processuale. Una dimensione che, come ci ricorda Luigi Sturzo, necessita di una continua opera riformatrice, tenendo saldo il principio cardine delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane volontarie; dunque: il principio di responsabilità.
A questo punto, il tempo “frammentato” si presta ad essere percepito in termini puramente spaziali e le istantanee diventano il luogo atemporale nel quale le persone si trasformano in individui, mezzi per la realizzazione di fini non necessariamente conformi alla loro dignità, tuttavia giudicati indispensabili per la realizzazione di un ipotetico fine della storia, imposto come necessario.
Di tutt’altro avviso è la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa e dei suoi principali interpreti. Essa ritiene che sia necessario tornare a riflettere con la mente non solo occupata nella gestione dell’ordinario breve periodo, che ad agire non siano puntini ben disposti in un ordinato sistema di assi cartesiani, la cui azione possa essere formalizzata da un elegante algoritmo che prescinda dalla dimensione temporale, dunque processuale, dell’agire umano. Come ci ha insegnato Sturzo, il vivere la socialità non è mai un’avventura statica e definitiva, bensì un’esperienza processuale e dinamica, dal momento che mentre “lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza” (Papa Francesco).
In questa prospettiva, contro le spinte populistiche di ieri e di oggi, la Dottrina sociale della Chiesa invita a dar vita ad “istituzioni inclusive”, che invertano il circolo vizioso delle “istituzioni estrattive” e capaci di innescare la necessaria mobilità sociale di cui una sana economia d’impresa (concorrenziale) e una democrazia liberale necessitano. In altri termini, si tratta di riscoprire quella tensione ideale al bene comune di tipo poliarchico e sussidiario che, per fare un esempio concreto, spinse dei cattolici impegnati in politica, come De Gasperi, Adenauer e Schuman, ad avviare un processo come quello dell’integrazione europea che, al di là dei suoi numerosi limiti, ha garantito una lunga stagione di pace e di sviluppo nel Vecchio Continente.