Flavio Felice
“Il Sole 24 Ore”, 6 maggio 2023
Al pari di qualsiasi altra comunità umana, anche la comunità internazionale è riducibile alle persone che la rendono possibile, riconoscendo il ruolo centrale dell’azione umana che produce effetti prossimi, che possiamo facilmente controllare ed eventualmente correggere, ed effetti remoti, ovvero non intenzionali, sui quali è drammaticamente difficile intervenire. Sono questi gli effetti che danno vita anche alle istituzioni, compresa l’autorità potestativa che in epoca moderna ha preso il nome di Stato; quest’ultimo proietta la forza degli attori che in esso operano, mostrando un potere assoluto, in quanto sovrano, e, in casi estremi, sciolto dallo stesso diritto che produce e al quale dovrebbe essere assoggettato: “Salus rei publicae suprema lex esto”.
Potere, diritto e forza sono le tre voci nelle quali si declina la vita stessa delle istituzioni, inclusa la comunità internazionale; in breve, il potere può esprimersi con il diritto o con la forza, ovvero con una loro combinazione. Le differenti forme politiche sono il prodotto di tali voci, il loro comporsi e scomporsi, ampliarsi e ritrarsi; a patire da tali voci si comprende la loro vocazione imperialistica ovvero il rispetto dell’autonomia altrui. In definitiva, dipenderà dal modo in cui potere, forza e diritto opereranno nel concreto, il fatto che una civiltà diventi una minaccia per altre civiltà; la dimensione egemonica del potere e il suo essere guerrafondaio dipenderanno sempre e soltanto dal modo in cui questi tre lemmi saranno declinati.
Ecco, dunque, che il governo della pace dipenderà, in buona sostanza, dal grado di consapevolezza che ciascuna civiltà avrà maturato dei propri principi e valori fondativi, dal potenziale distruttivo che può assumere la miscela esplosiva potere-forza-diritto, nonché dalla capacità di dar vita ad istituzioni in cui l’elemento del diritto abbia la meglio su quello della forza, sul fatto che la comunità internazionale possa poggiare sul primo, piuttosto che sul secondo.
A questo punto, il governo della pace richiede che la totalità del potere non passi per lo Stato o per qualsiasi istituzione che rivendichi per sé il monopolio della forza e di essere l’unica fonte del diritto. Il fatto che lo Stato abbia monopolizzato il potere, ovvero che tenda per definizione comunque a farlo, si comprende a partire da un’idea di egemonia dello Stato sulla società civile, di supremazia della politica sulle altre forme sociali e fonda una nozione di comunità internazionale al centro della quale operano Stati sovrani incapaci di concepire relazioni di interdipendenza, e portati a far valere la loro sovranità ai danni di chiunque non riconosca o semplicemente minacci quella pretesa egemonica.
Appare evidente che il governo della pace necessiti di un deciso ripensamento della nozione di sovranità e il riconoscimento che il potere, affinché sia legittimo, è opportuno che sia distribuito. Se è vero che la storia ci insegna come tale distribuzione del potere sia stata possibile all’interno della comunità nazionale, il governo della pace pone il problema di come implementare un simile elementare assioma della teoria politica: il potere è limitato da un contropotere, anche a livello sovranazionale.
Affinché si possa immaginare un governo della pace che non si riduca alla gestione ordinaria delle fasi di non belligeranza: il governo dei conflitti, cercando di assecondare ora la pretesa egemonica dell’uno ora quella dell’altro, bisognerebbe evitare, come scriveva Luigi Sturzo già nel 1928, «di fissare lo Stato moderno come colonne d’Ercole dell’organizzazione politica».