Flavio Felice
“Il Sole 24 Ore”, 30 agosto 2021
“Tra Cesare e Dio: la cultura del Risorgimento a 150 anni da Porta Pia”. È questo il titolo del XXI Simposio Rosminiano che si è svolto a Stresa dal 24 al 27 agosto, curato e diretto da padre Umberto Muratore. A partire dalle parole di Antonio Rosmini, circa l’autonomia del civile rispetto al governo della Chiesa, e alla relatività e parzialità della poltica rispetto al dato esistenziale, il Simposio ha consentito di riflettere sulle ragioni epistemologiche dell’autonomia delle singole forme sociali, sui fondamenti teologici del dialogo fra dimensione politica e religiosa, oltre che sul modo in cui Rosmini immaginava la possibile armonia tra stato e chiesa.
Al centro della discussione è emerso uno dei problemi più significativi della modernità: l’emergere dello stato come l’unica forma di autorità politica ammessa e detentrice della legittimità dell’uso della forza.
Ciò che ad alcuni è apparso come un dato ineluttabile del vivere civile, si scontra con le ragioni storiche di una presenza, come quella della chiesa, il cui insegnamento, riprendendo le parole di Bertrand Russel, «significava così indebolimento dello Stato a favore del diritto al libero giudizio o a favore della Chiesa. Il primo implica, teoricamente, l’anarchia; il secondo due autorità, Chiesa e Stato, senza tuttavia stabilire una chiara delimitazione delle rispettive sfere d’influenza. Cos’è di Cesare e cosa di Dio?». È il dilemma irriducibile delle “due spade” che, nella prospettiva del cattolicesimo liberale, è stato brillantemente descritto da Dario Antiseri con le seguenti parole: «“Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”: con ciò entrava nella storia il principio che Káisar non è Kyrios – il potere politico veniva desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato, e le richieste di Cesare sottoposte a un giudizio di legittimità da parte di una inviolabile coscienza. Su questa base Orígene poteva giustificare, contro Celso, il rifiuto da parte dei cristiani di associarsi al culto dell’imperatore o di uccidere in obbedienza ai suoi ordini». Il merito del cristianesimo sarebbe stato quello di aver sancito, per decreto religioso, il divieto, da parte dello stato, di assorbire la coscienza individuale, fino ad annullarla nel totalitarismo socio-politico ovvero nella teocrazia.
In questo orizzonte concettuale, il teologo Giuseppe Lorizio ha evidenziato come oggi, soprattutto i credenti, siano chiamati a confrontarsi sul rapporto stato e autorità politica, un “rapporto dialogico” e fuggire dalla tentazione di cadere nella genericità irreale e di aggredire la questioni a partire dal dato di realtà, il quale ci mostra una pluralità di esperienze religiose e di forme di autorità politiche, irridicubili alla chiesa cattolica e a alla forma statuale.
In sintonia con l’eredità intellettuale del filosofo roveretano, letta alla luce della teoria politica elaborata da Luigi Sturzo, si è evidenziato quanto questa prospettiva sia distante dalle visioni statolatriche, tipicamente totalitarie o anche solo larvatamente autoritarie e paternalistiche. Dal XIX secolo è mancata la percezione di come la società sia divenuta ostaggio dello stato, inteso come “suprema espressione della vita collettiva”, il “detentore incontrastato di ogni potere”, “la fonte del diritto”: «Sia lo stato poggiato sul popolo sovrano, sia lo stato ipostatizzato come la suprema realizzazione dell’“Idea”; sia lo stato come unica espressione della nazione deificata; tanto in teoria che nell’organizzazione pratica lo stato ha assorbito in sé la società ed ha annullato, per quanto possibile, il valore personale degli uomini operanti in società». Per Sturzo si è giunti all’assurdo di un regime in cui lo stato si sovrappone alla vita delle persone, un ordine politico che assorbe ogni aspetto dell’esistenza umana e giunge fino al punto di non ritorno in cui lo stato, ex definitione, assume tutto in sé, tutto per sé e non ammette nulla al di fuori di sé. È questo l’ordine politico infetto dal virus totalitario che trasferisce, in parte o totalmente, la libertà e l’autorità dai singoli allo stato, sopprimendo sia le libertà individuali sia l’autonomia delle forme sociali, nonché quella degli “enti concorrenti” (espressione molto più interessante e meno equivoca rispetto a quella di “corpi intermedi”, troppo spesso finita preda dalla cultura politica organistica e corporativistica): famiglia, città, classi, regioni, chiese, a favore dell’unico ente: lo stato. Così concepito, lo stato verrebbe privato dei limiti intrinseci e estrinseci e la libertà che si intesta o che gli viene attribuita annulla quella delle singole persone e delle singole autorità.