Mendicanti di senso: costretti a scegliere tra l’assurdo e la speranza

Dario Antiseri

“9 novembre 2020

Da “Vita e Pensiero”, n. 5, 2020

1. Di fronte all’immane tragedia che si è avventata in ogni angolo del mondo, un pensiero invade le nostre menti: è quello della fragilità dell’uomo – ma non di questo o quel singolo, di una persona cara o di un nostro vicino, ma il pensiero della fragilità dell’intera umanità. Ha preteso di sostituirsi a Dio, ma l’uomo non è Dio; la ragione non è la dea-Ragione; il futuro non è nelle nostre mani.

Potremmo dire che, inebriato dalle “magnifiche sorti e progressive”, pieno di orgoglio per i risultati della ricerca scientifica e delle applicazioni tecnologiche, l’uomo si è sentito quasi onnipotente, ma in questi giorni a lui niente appare più sicuro, scontato una volta per tutte. È proprio così: niente è scontato, tutto è costruito e tutto può scomparire – dalla salute che si perde e dalla vita di migliaia e migliaia di uomini e donne che svanisce nella più straziante solitudine. Strage di persone, prevedibile catastrofe economica, sconvolgimento dell’andamento più o meno “rituale” della vita quotidiana…

Certamente, uno scenario apocalittico che, perlomeno che si possa dire, dovrebbe spingerci ad essere meno stupidi e meno cattivi. Meno stupidi, aprendoci gli occhi su ciò che veramente conta e su tutto ciò che non conta, su quali “valori” e istituzioni custodire, preservare e difendere, e su quanto, anche se non c’è, non rende più povera e meno interessante la vita. E meno cattivi, facendoci capire che i mali vanno affrontati insieme, che l’arma più potente contro le difficoltà – dalle più piccole alle più grandi – è la solidarietà. La furia di una pandemia senza confini e senza “riverenze” rende evidente che siamo tutti uguali, precari e fragili, e che nessuno può presumere di venirne fuori da solo. Tanto più se si pensa, per dirla con Albert Einstein, che «la vita è una fugace visita in una casa sconosciuta».

2. Dal Vangelo (Matteo, 33, 44): «Giunti a un luogo detto Gòlgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere. Dopo averlo quindi crocifisso, si spartirono le sue vesti tirandole a sorte. E sedutisi, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo, posero la motivazione scritta della sua condanna: “Questi è Gesù, il re dei Giudei”. Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra. E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: “Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!”. Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: sono Figlio di Dio!”».

3. Il dramma che il corona-virus ha scatenato sul nostro pianeta fa riemergere anche nelle menti dei più distratti, accentuandolo, il problema o, se vogliamo, il mistero del male – del male che si abbatte sull’uomo, come nel caso dei terremoti o delle pestilenze, del male creato dall’uomo come nel caso delle guerre o delle altre forme di sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Se c’è Dio, un Dio padre misericordioso, perché tanto male e così tanta sofferenza? Perché un Padre misericordioso e onnipotente permette che schiere dei suoi figli muoiano straziati sotto le macerie di un terremoto o dilaniati dalle schegge di bombardamenti programmati dalla migliore tecnologia? Dove stava e dove sta il Padre misericordioso mentre migliaia e migliaia di sue creature morivano e muoiono travolti dalla forza di uragani e inondazioni? Perché tanta sofferenza innocente e, soprattutto, perché la sofferenza degli innocenti, vale a dire dei bambini? Dove stava il Dio onnipotente mentre Alfredino Rampi rantolava in fondo al pozzo, lì vicino a Vermicino? Perché il Gulag? Perché Aushwitz?

4. È proprio la sofferenza dei bambini lo scoglio dove non di rado si infrange la fede del credente e svanisce la speranza in un Dio onnipotente e giusto. «Se tutti devono soffrire per comprare con le loro sofferenze un’armonia che duri eternamente, cosa c’entrano però i bambini?». Questo si chiede Ivan Karamazov. E prosegue: «Finché sono in tempo…mi rifiuto assolutamente di accettare questa armonia eterna. Essa non vale le lacrime nemmeno di quell’unica creaturina che si batteva il petto col piccolo pugno e pregava il “buon Dio” nello stanzino puzzolente. Non le vale, perché quelle lacrime sono rimaste senza riscatto […]. Io non voglio nessuna armonia, per amore dell’umanità non la voglio […]. Non è che io non ammetti Dio, Alioscia, soltanto gli restituisco il biglietto». Così F. M. Dostojevsky ne I fratelli Karamazov.

A. Camus. La peste infuriava da giorni ad Orano. Ed ecco che il dottor Rieux – il medico che per curare gli appestati aveva deciso di rinviare il suo ritorno in Francia – e padre Paneloux si trovano a guardare in faccia, e a lungo, l’agonia di un innocente. Il ragazzo «continua a gridare, e tutt’intorno a lui i malati si agitano […]. Improvvisamente gli altri malati tacquero; il dottore riconobbe allora che il grido del ragazzo si era indebolito, che scemava ancora e che stava per finire. Intorno a lui i lamenti riprendevano, ma sordamente, e come un’eco lontana della lotta appena conclusa. Si era conclusa infatti […]. Con la bocca aperta, ma muta, il ragazzo riposava nella buca delle coperte in disordine, rimpiccolito di colpo, con resti di lacrime sul viso.

Avvicinatosi al letto, Paneloux fece i gesti della benedizione. Poi raccolse la sua roba e uscì dal corridoio centrale […]. Rieux si voltò verso Paneloux: “Ci sono

ore, in questa città, che non sento se non la mia rivolta”. “Capisco”, mormorò Paneloux. “È rivoltante in quanto supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire». Rieux si alzò di scatto, guardava Paneloux con tutta la forza e la passione di cui era capace, e scuoteva la testa. “No, Padre”, disse, “io mi faccio un’altra idea dell’amore; e mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati”».

         Elie Wiesel, uno dei sopravvissuti ad Auschwitz, scrive ne La notte: «La nostra processione continuava ad avanzare, lentamente […].Non lontano da noi delle fiamme salivano da una fossa, delle fiamme gigantesche. Vi si bruciava qualche cosa. Un autocarro si avvicinò e scaricò il suo carico: erano bambini. Dei neonati! Sì, l’avevo visto, l’avevo visto con i miei occhi […]. Dei bambini nelle fiamme […]. Ecco dunque dove andavamo. Un po’ più avanti, avremmo trovato un’altra fossa, più grande, per adulti». Prosegue Wiesel: «Non so se è già successo nella lunga storia del popolo ebraico che uomini recitino la preghiera dei morti per sé stessi – Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rabbà … che il Suo Nome sia ingrandito e santificato … mormorava mio padre. Per la prima volta sentii la rivolta crescere in me. Perché dovevo santificare il Suo Nome? L’Eterno, il Signore dell’Universo, l’Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarLo?». Conclude Wiesel: «Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai».

5. «C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio», così Primo Levi in Se questo è un uomo. Che ne è dell’onnipotenza di Dio? Perché di fronte «alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature, fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti» non è intervenuto? Perché non ha fatto il miracolo di salvare gli innocenti da menti stravolte e mani assassine? Questo si chiede Hans Jonas in Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Ed ecco la sua risposta: «Questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. I miracoli che accaddero furono unicamente opera di uomini, le azioni di quei giusti, appartenenti ad altri popoli che, in modo isolato e sovente sconosciuto, accettarono l’estremo sacrificio per salvare, alleviare, se non erano in grado di far altro, condividere la sorte di Israele […]. Ma Dio tacque. E ora aggiungo: non intervenne, non solo perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo». Jonas prosegue: «Per ragioni che in modo decisivo derivano dall’esperienza contemporanea, propongo quindi l’idea di un Dio che per un’epoca determinata – l’epoca del processo cosmico – ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo; un Dio che nell’urto con gli eventi mondani rivolti contro di lui, non ha reagito “con la mano forte e un braccio teso” – come noi Ebrei recitiamo ogni anno ricordando l’esodo dall’Egitto – bensì continuando con muta perseveranza la realizzazione del Suo fine incompiuto». Ad Auschwitz non intervenne. Non fu in condizione di farlo – afferma Jonas – per la ragione che Dio, creando un uomo libero, ha limitato la sua onnipotenza: «La creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta – una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare se stesso – un atto infine dell’autoalienazione divina».

6. Søren Kierkegaard. «Credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro! Dunque, la via è stretta [Mt. 7,14] (e questo appartiene già alla fede). La via è buia; anzi, non soltanto buia e di un buio pesto, ma è come se la luce dei lampioni non facesse che confondere e aumentare l’oscurità […] proprio perché gli indicatori stradali significano la direzione inversa».

Anche il viandante che sul cammino della fede avanza con più sicurezza, si ferma – impietrito – davanti all’indicatore “Strage degli innocenti”. Si ferma, assalito da una folla di dubbi e a poco a poco sente venirgli meno la forza di proseguire. Non ha più coraggio, si arrende, ha perso ogni speranza. È svanita la fede, “restituisce il biglietto” e si lascia scivolare nella direzione segnata dall’indicatore “Strage degli innocenti” – torna indietro travolto nei gorghi dell’assurdo, nella notte buia del “non-senso”.

Ma ecco che, scaraventato davanti allo stesso indicatore, c’è chi si ribella e si rifiuta di ammettere che l’assurdo sia la realtà definitiva e che la notte sarà eterna – e invoca un senso che nessuna spiegazione può dare. Come il buon ladrone crede a dispetto e nonostante tutte le evidenze in contrario. Si aggrappa a quella fede che apre – per dirla con Max Horkheimer – «alla speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola», che non sia ultima la parola del carnefice sulla vittima innocente.

7. Sul cammino della vita ognuno di noi – ogni uomo e ogni donna – si imbatterà inesorabilmente in un bivio dove sarà costretto a scegliere tra l’assurdo e la speranza. In quel momento, in quei giorni, la scienza – tutta la scienza – tacerà e non gli sarà d’aiuto la filosofia. Appesantito da inutili “spiegazioni”, va alla ricerca di un “senso” su cui il sapere scientifico per principio resta muto e la filosofia, quando esplicitamente non lo nega, riesce a malapena ad aprirsi. Dunque: inevitabile è la scelta tra l’assurdo e la speranza o, per dirla in altri termini, tra l’esistenza e l’inesistenza di Dio.

         Luigi Pareyson: «La filosofia non interviene né per scegliere fra l’esistenza e l’inesistenza di Dio […], né per dimostrare eventualmente l’esistenza di Dio […]. La scelta fra l’esistenza e l’inesistenza di Dio è un atto esistenziale di accettazione o ripudio, in cui il singolo uomo decide a suo rischio se per lui la vita ha un senso oppure è assurda, giacché a questa opzione si riduce in fondo e senza residuo quel dilemma».

Don Luigi Giussani: «Ricono­scere Dio non è problema né di scienza, né di sensibilità estetica e neanche di filosofia come tale. È un problema di libertà […]. Alla fin fine, l’opzione è decisiva».

Norberto Bobbio: Esiste una domanda, la “grande domanda”, una richiesta di senso per la nostra vita, la storia degli uomini, l’universo intero. «L’esigenza di una risposta a queste domande c’è, queste domande ci sono. Il che spiega la forza della religione. Non è sufficiente dire: la religione c’è, ma non dovrebbe esserci. C’è: perché c’è? Perché la scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare le risposte». «Ma proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo – afferma Bobbio – rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea».

Joseph Ratzinger: «Se costruisco la mia vita senza o contro Dio, quel che io faccio sarà qualcosa di totalmente diverso da ciò che farei se fondassi la mia vita su Dio. Si tratta di una decisione che abbraccia la totalità della mia esistenza: come vedo il mondo, quel che voglio essere e quel che sono. Non si tratta di una delle tante decisioni sul mercato delle possibilità che mi vengono offerte. Qui, al contrario, è in gioco tutto ciò che ha a che fare con la mia vita e con il suo destino».

Ludwig Wittgenstein: «Non come il Mondo sia è ciò che è Mistico, ma che esso sia». «Noi sentiamo che seppure tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati». «Il senso della vita possiamo chiamarlo Dio. Pensare al senso della vita significa pregare».

Julien Green: «La fede è un filo teso sull’abisso degli orrori».

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