Buon compleanno “Old Nick”

Flavio Felice

Il 3 maggio del 1469 nasceva Niccolò Machiavelli. A 550 anni dalla sua nascita non si spegne l’interesse per il segretario fiorentino, per la sua opera e per l’enorme impatto che le sue massime hanno avuto sulla formazione della cultura politica occidentale.

Il termine “stato”, il cui concetto esprime l’ultima fase di un processo evolutivo che nel Novecento approderà a ciò che Luigi Sturzo ebbe a definire “panteismo”: «la comunità che si personifica, si idealizza, si sente come il tutto e si deifica. Non ha limiti: gode di una sovranità assoluta», esprime l’idea di “stabilità”, in un periodo in cui la divisione in piccole entità politiche, come i principati, i ducati e i marchesati rendevano necessaria proprio la stabilità del potere; fu in questo frangente che l’idea del potere, come forza centripeta, s’impose alla pluralità dei poteri che invece esprimevano una dimensione centrifuga. Quindi, la personificazione dello stato nel “Principe” rappresentò forse la prima manifestazione dell’idea di autorità politica statuale e trovò il suo teorico in Machiavelli. Questi, al di là delle strumentalizzazioni, ebbe il grande merito, dal punto di vista teorico, di aver individuato la “verità effettuale” nella politica, quella stessa verità che nel secolo successivo venne chiamata “ragion di Stato” e nel XIX secolo divenne la “Realpolitick”.

Siamo convinti che Machiavelli non abbia mai goduto del crimine, benché ne ammirasse gli effetti, qualora producesse il successo sperato, dunque, appare insensato cedere alla consumata vulgata che vorrebbe Machiavelli un diavolo in terra, l’Old Nick della tradizione britannica, al quale s’imputerebbero tutte le nefandezze dell’agire politico spregiudicato. In breve, lo spirito del segretario fiorentino non era quello di un cinico consigliere del principe, bensì quello freddo e distaccato dell’anatomopatologo, il cui principale criterio di giudizio è la stabilità del governo. Diverso dall’atteggiamento dei tanti che, invece, nel corso dei secoli, hanno utilizzato l’opera del fiorentino, strumentalizzandola e dissimulando un sentimento patriottico che cela solo ambizione di potere e, nel caso della vulgata mussoliniana, la “feroce volontà totalitaria”.

Dunque, se da un lato è confermata l’ipotesi che la fattispecie di azione politica, orientata alla conquista, alla conservazione e al trasferimento del potere, assume un carattere teorico proprio con Machiavelli, dall’altra, forse, al di là delle intenzioni del segretario, ad aver teorizzato l’asservimento dell’etica alla politica, sarebbero stati proprio i suoi più severi e moralistici censori. In questa prospettiva, andrebbe letta, ad esempio, la severa critica di Sturzo nei confronti di quella letteratura del periodo della Controriforma che pretende di essere moralistica, assumendo un “antimachiavellismo a fior di labbra” e che finisce per riconoscere la validità della precettistica machiavelliana. È questo il fenomeno, ambiguo e complesso, che andò sotto il nome di “tacitismo”: quella pubblicistica di marca soprattutto cattolica che, durante il periodo della Controriforma, di fronte alla condanna dell’opera di Machiavelli, si concentrò sull’opera di Tacito, analizzando i problemi dell’epoca imperiale, rinvenendo nello storico romano un precursore del segretario fiorentino.

La realtà fu che per due secoli, cattolici e protestanti tentarono di elaborare una teoria politica che fosse morale e gli “antimachiavellici” abbondarono anche tra i “machiavellisti”. Lo scontro tra cattolici e protestanti condusse, in termini teorici, ad adottare largamente i metodi descritti da Machiavelli, nonostante i principi cattolici e protestanti vedessero in Machiavelli l’incarnazione del diavolo. In questo modo, la teoria della ragion di stato assunse un carattere moralistico ed entrò di diritto nella precettistica dei re, dei principi e dei giovani aspiranti al potere, così come divenne onnipresente nella trattatistica morale che condusse alla concezione della ragion di stato. Nessuno ebbe il coraggio di affermare che “il fine giustifica i mezzi” – invero espressione che non appare nell’opera di Machiavelli – e molti si dedicarono in filippiche “antimachiavelliche”, sostenendo, nello stesso tempo, l’idea che il “bene dei sudditi”, “la stabilità del regno”, la “gloria del principe”, la “pace della chiesa”, fossero tutti insieme il “fine del sovrano”: il “bene comune”. Questa concezione ampia, assoluta e irresponsabile dei compiti della politica ha prodotto un ampliamento della nozione di potere sovrano e una riduzione della capacita delle forme sociali di porre limiti all’azione politica, vedendo così calpestato il diritto e violata la dignità della persona umana, in nome dell’insulso, ipocrita e immorale adagio: “il fine buono giustifica i mezzi”, e quando il fine è giusto lo dice il “Principe”.

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