Popolo Vs. Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale

“Il Foglio”, 14 agosto 2018

Antonio Campati

Nel dibattito sulle trasformazioni dei sistemi politici, è sempre più usuale definire “democrazie illiberali” alcuni paesi che, fino a pochissimi anni fa, consideravamo casi esemplari di un riuscito processo di democratizzazione o, addirittura, democrazie consolidate. Questa espressione indica uno “sgretolamento” della democrazia liberale classica, cioè di quel sistema di controlli e di garanzie politiche che, allo stesso tempo, protegge i diritti individuali e traduce le preferenze del popolo in politiche pubbliche. Ruota attorno a questa constatazione di fondo la riflessione che Yascha Mounk, docente di Teoria politica presso il dipartimento di Studi governativi di Harvard, sviluppa in Popolo vs democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale (Feltrinelli). Quello che lancia Mounk è un vero e proprio campanello d’allarme per lo stato di salute delle nostre democrazie. Il “deconsolidamento” che le sta interessando è testimoniato dalla nascita, da un lato, di una “democrazia illiberale” o democrazia senza diritti e, dall’altro, dall’affermarsi di un “liberalismo antidemocratico”, o di diritti senza democrazia. Il dato che preoccupa enormemente Mounk è che il populismo – così diffuso a livello planetario – rappresenta la sintesi perfetta di queste due tendenze dal momento che è sia democratico in senso pieno, perché esprime le frustrazioni della gente, sia illiberale perché indebolisce fortemente le istituzioni (quelle rappresentative, ma non solo). Per lo studioso di Harvard, il tempo odierno – considerato “straordinario” perché necessita della rinegoziazione dei contorni essenziali della politica e della società – si distingue per tre aspetti dal tempo ordinario, cioè da quello durante il quale le caratteristiche collettive della vita di un paese non vengono messe in discussione. La prima riguarda gli standard di vita dei cittadini, la cui crescita poteva essere garantita dalle istituzioni liberali, ma che oggi è sempre più stagnante: ciò non significa necessariamente che i paesi democratici siano meno ricchi, ma che questi ultimi non riescono più a offrire concrete aspettative di miglioramento materiale ai suoi cittadini. La seconda riguarda il controllo dei mezzi di comunicazione. Mounk sostiene che è impossibile capire la politica di oggi senza capire la natura trasformativa di internet perché l’utilizzo dei social media consente a tutti di intervenire nel dibattito pubblico (sottraendo alle élite il controllo della diffusione delle notizie), ma allo stesso tempo permette la diffusione di opinioni radicali, se non totalmente false, che inquinano il dibattito. Infine, la terza ragione del deconsolidamento della democrazia è imputabile alla sua eterogeneità in termini identitari: “l’omogeneità dei cittadini” secondo una rigida gerarchia raziale rappresentava un elemento indiscutibile fino a qualche decennio fa, mentre oggi la situazione è molto più equa ed eterogenea. Nell’ultima parte del libro, vengono elencati anche i possibili rimedi per invertire questa preoccupante tendenza. Qui, Mounk avanza idee forti, proponendo di “addomesticare” il nazionalismo per forgiare un nuovo “patriottismo inclusivo”; di modernizzare il sistema fiscale, di riorganizzare il sistema degli alloggi, di rinnovare gli investimenti nella produttività all’interno di “un nuovo stato assistenziale” e, infine, di ricostruire la fede civica. Nello spiegare quest’ultimo intento, l’autore si dice convinto del fatto che se i social media hanno avuto un effetto così corrosivo sulla democrazia liberale lo si deve solamente alla fragilità delle “fondamenta morali” di quest’ultima. E quindi, per rivitalizzarla, propone di ricostruirla su “una base ideologica più stabile”.

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