Dario Antiseri
- «Come mettiamo insieme la laicità di uno Stato che non vogliamo più assoluto (dunque rispettoso delle nostre personali trasgressioni) e la tradizione che vogliamo mantenere e rispettare delle nostre radici giudaico-cristiane?» E, per essere ancora più chiari: non c’è una stridente antinomia tra la concezione cristiana della vita e la laicità dello Stato? Questa una delle domande, a mio avviso di maggior peso sia storico che teorico, che Nicola Porro pone nel suo recente libro La disuguaglianza fa bene (La Nave di Teseo, Milano, 2016). Si tratta di un lavoro istruttivo, scritto in modo chiaro e brillante, dove l’Autore compie un lungo viaggio tra gli scritti di economisti, filosofi, politologi ed anche romanzieri i quali hanno difeso e difendono le ragioni di quella libertà che ha dato forma all’Occidente e che oggi l’Occidente pare mettere disgraziatamente in discussione. Dunque, quello di Porro, un lungo ed affascinante viaggio nel Mondo 3 del pensiero liberale. E non sarebbe stato male, anzi sarebbe stato più che opportuno, se in questo suo viaggio l’Autore si fosse anche addentrato nella provincia del liberalismo cattolico ponendo la dovuta attenzione a pensatori, tra altri, del livello di Rosmini, Lord Acton, Sturzo, Garello, Sirico, Novak e don Angelo Tosato.
- Porro chiede: l’essere cristiano è compatibile con la laicità dello Stato? E a lui che ne dubita e a quanti si ostinano a negare tale compatibilità, mi permetto di rivolgere quest’altra domanda: lo Stato laico – cioè la società aperta o Stato di diritto – sarebbe stato possibile senza il messaggio cristiano?
Nel 112 d.C., Plinio il Giovane, a quel tempo governatore della Bitinia, invia una lettera all’imperatore Traiano, dove gli notifica di aver condannato a morte tutti quei cristiani che si erano rifiutati di adorare Cesare come Signore (Kýrios Káysar) e di maledire Cristo (Anáthema Christós). Con il messaggio cristiano aveva fatto irruzione nella storia degli umanini l’idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo e di ogni donna a giudicare il potere politico. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l’Assoluto. Lo Stato non è l’Assoluto: Káysar non è Kýrios. E con ciò il potere politico veniva desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte al giudizio di legittimità da parte di coscienze inviolabili, di persone “fatte ad immagine e somiglianza di Dio”. La realtà è che la Grecia ha passato all’Europa l’idea di ragione come discussione critica, ma non fu la Grecia a passare all’Europa i suoi déi. Questi, come ha scritto Giovanni Reale, «erano già stati resi vani dai filosofi a cominciare dai presocratici, Senofane in testa». Il Dio delle popolazioni europee è il Dio della Bibbia e del Vangelo, il Dio giudaico-cristiano: il Dio che desacralizza il mondo e che così, come sostiene Max Scheler, lo rende disponibile alla manipolazione e all’indagine scientifica in una misura prima impensabile; è il Dio che desacralizza il potere politico offrendo così le basi di una prospettiva non teocratica; è il Dio che rende libera, responsabile e inviolabile la persona umana con il conseguente ridimensionamento dell’ordine politico. La secolarizzazione con un mondo non più sacro e con un uomo che, per quanto possa illudersi, non è Dio, è una chiara conseguenza del messaggio evangelico. E, d’altro canto, se le ninfe non aleggiano più su sorgenti d’acqua e non c’è più Zeus a lanciare fulmini dal cielo, tutto questo è una purificazione della fede dalla superstizione e niente affatto la cancellazione della possibilità di una realtà trascendente. In poche parole, il messaggio cristiano libera l’uomo dall’idolatria: il cristiano non può attribuire assolutezza e perfezione a nessuna cosa umana. È, dunque, per decreto religioso che lo Stato non è tutto, non è l’Assoluto. E sia con la dissacrazione di Cesare, vale a dire della de-assolutizzazione del potere politico, sia con il valore dato alla libera e responsabile coscienza di ogni persona, il cristianesimo ha creato, a livello politico, una tensione che attraversa tutta la storia dell’Occidente. Si tratta, infatti, di idee ed ideali che, pur tra tentazioni “teocratiche” o rifiuti “satanocratici” del potere politico, hanno esercitato, nell’evoluzione storica, una pressione a volte travolgente sull’elemento mondano antitetico.
- Sta qui un tratto essenziale, costitutivo dell’Occidente: senza Cristianesimo l’Occidente non esisterebbe. Certo, nessuno può ignorare i rivoli che sono confluiti nel grande fiume che ha in-formato, dato forma, all’Occidente – grande fiume che risale a due sorgenti: quella che sgorga da Atene e quella che sgorga da Gerusalemme. E se è vero, per dirla con P.B. Shelley, che «noi tutti siamo greci», è anche vero, come ha scritto W. Röpke, che «soltanto il Cristianesimo ha compiuto l’atto rivoluzionario di sciogliere gli uomini, come figli di Dio, dalla costrizione dello Stato e, per parlare come Guglielmo Ferrero, di demolire l’esprit pharaonique dello Stato antico». Una realtà, questa, pienamente riconosciuta anche da atei quali, per addurre solo qualche esempio, Renan, Croce, Salvemini, Popper. Scrive Popper ne La società aperta e i suoi nemici: «Riconosco che gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l’umanitarismo, la libertà, l’uguaglianza, li dobbiamo all’influenza del Cristianesimo […]. I primi cristiani ritenevano che è la coscienza che deve giudicare il potere e non viceversa». E la coscienza, quale ultima corte di giudizio nei confronti del potere politico, in unione con l’etica dell’altruismo, «è diventata la base della nostra civiltà occidentale». La realtà, dice Popper, è che «ad eccezione del razionalismo greco, nulla ha esercitato un così forte influsso sulla storia delle idee in Occidente come il Cristianesimo e le lotte nel suo interno». Ed ecco, da parte sua, cosa, «per semplice osservanza della verità», volle precisare Benedetto Croce in Perché non possiamo non dirci cristiani: «Il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto». E la ragione di ciò, precisa Croce, «è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale e, conferendo risalto all’intimo e proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino ad allora era mancata all’umanità». È un ateo come E. Renan a dire che «Gesù restò per l’umanità un principio inesauribile di morali rinnovamenti» e che «tra i figli degli uomini uno più grande di Gesù non è nato mai»; ed è un altro ateo e grande sostenitore della libertà come G. Salvemini a dichiarare che è Gesù Cristo il maestro che «ci ha lasciato il più perfetto codice morale che l’umanità abbia mai conosciuto».
- Penso che queste considerazioni siano sufficienti a dissolvere i dubbi di Nicola Porro. Ma qualche altra idea vorrei sottoporre all’attenzione di quanti perseverano nel vedere nel Cristianesimo la patologia piuttosto che la fisiologia dell’Europa e, più ampiamente, dell’Occidente. Fu Benjamin Constant a far presente che se «popoli religiosi hanno potuto essere schiavi, nessun popolo irreligioso è mai rimasto libero […] Quando il dispotismo si incontra con l’assenza del sentimento religioso, la specie umana si prostra nella polvere ovunque la forza si dispieghi». E Tocqueville ne La democrazia in America annotava di «essere portato a pensare che, se un uomo non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda». E ancora uno scrittore liberale del periodo di Napoleone III, e cioè E. Laboulaye, in uno studio sulla differenza fra la libertà antica e la moderna (L’etat et ses limites, 1865), ha sostenuto che noi dobbiamo la nostra libertà moderna al coraggio dei martiri cristiani di fronte alla morte, perché soltanto alla loro inflessibilità va attribuito il fatto che il tardo dispotismo romano poté essere infranto in nome della religione cristiana universale e che si poté conquistare quel diritto dell’anima individuale che contraddistingue la libertà moderna. Scriveva, dunque, Laboulaye: «I palazzi dei papi hanno rimpiazzato il palazzo di Cesare, il Vaticano parla di potenza alla Chiesa; ma al di sotto di questo splendido edificio ci sono le catacombe, le quali parlano di libertà». È questa una idea ribadita dall’allora cardinale Ratzinger in un colloquio con Antonio Socci apparso su «Il Giornale» del 26 novembre 2003. Chiede Socci: «C’è una novità nel suo libro [Fede, verità, tolleranza, 2003] a proposito del relativismo. Lei sostiene che, nella pratica politica, il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina, diciamo, dalla tentazione utopica. È il giudizio che la Chiesa ha sempre dato sulla politica?». Ratzinger risponde: «Direi proprio di sì. È questa una delle novità essenziali del cristianesimo per la storia. Perché fino a Cristo l’identificazione di religione e Stato, divinità e Stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo Stato. Poi l’islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità. In realtà, da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice: “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla Croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo Stato». È per decreto religioso che, per il cristiano, lo Stato non è tutto, lo Stato non è l’Assoluto. E all’intervistatore che fa presente che «questo è uno straordinario punto d’incontro tra pensiero cristiano e cultura liberaldemocratica», Ratzinger replica: «Io penso che la visione liberaldemocratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando pure una nuova libertà. Lo Stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo Stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo Stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello Stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberaldemocratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa». Non si può, dunque, dar torto a Thomas S. Eliot allorché scriveva che «se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura. E allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie». E se in Europa le idealità cristiane seguiteranno ad allontanarsi dalle menti dei suoi cittadini, sarà l’Europa a scomparire. Difatti, come giustamente ammoniva Rosmini: «Chi non è padrone di sé, è facilmente occupabile».
- Una società laica non è tale perché società atea. Stati atei come fu nel caso del paganesimo nazista e del materialismo comunista sono state società chiuse orribili e crudeli. Società laica significa società aperta. La società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee ed ideali diversi e magari contrastanti, ed è chiusa soltanto ai violenti e agli intolleranti. E se più d’una sono le ragioni storicamente via via addotte contro l’idea di società chiusa e a supporto della società aperta, nevralgiche a difesa della società aperta risultano: la consapevolezza che le “verità” delle fedi scelte ed abbracciate possono venir proposte e non imposte; la consapevolezza che nessun uomo è più importante di un altro uomo e che le istituzioni sono in funzione della libertà e della realizzazione della capacità di ciascun individuo; la consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana; la consapevolezza che dai fatti non sono derivabili valori; la consapevolezza che il monopolio pubblico o privato dei mezzi di produzione equivale alla cancellazione di ogni libertà, perché «chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini» (F.A. von Hayek). Viviamo in una società laica quando a nessuno e a nessun gruppo portatore di una specifica tradizione è proibito di dire la sua, ma dove nessuno e nessuna tradizione è esente dalla critica nel pubblico dibattito. Laico è chi è critico; non dogmatico; disposto ad ascoltare gli altri – soprattutto quanti pensano diversamente da lui – e al medesimo tempo deciso a farsi ascoltare; laico è chi è rispettoso delle altrui tradizioni e, in primo luogo, della propria; è colui che è consapevole della propria ed altrui fallibilità e che è disposto a correggersi; il laico non è un idolatra, non divinizza eventi storici ed istituzioni a cominciare dallo Stato; non reifica, non fa diventare cose (res), cioè realtà sostanziali, i concetti collettivi (popolo, classe, nazione, sindacato, partito, ecc.) che così si trasformerebbero in entità liberticide; il laico rispetta la voce del popolo ma non la mitizza, perché sa che il popolo, al pari di ogni singolo individuo, può sbagliare: la piazza ha scelto Barabba, ha osannato assassini e dittatori, è andata in delirio per Mussolini, Hitler e Stalin; il laico sa che nello Stato di diritto sovrana è la legge e non il popolo – la legge che pone garanzie di libertà dei cittadini e che protegge le minoranze nei confronti di maggioranze, tentate di governare tirannicamente. Il laico sa che la democrazia è “l’alta arte del compromesso”, ma è colui che anche sa che non sempre il compromesso è possibile giacché esistono valori o ideali inconciliabili, con la conseguenza che la società aperta non sarà mai una società perfetta – anzi la società perfetta è la negazione della società aperta; il laico combatte fin che può con le “parole” invece che con le “spade”, ma sa opporsi con la spada a quanti usano la spada per opprimere gli altri: «Abbiamo non soltanto il diritto, ma il dovere di rifiutare di essere tolleranti verso coloro che cospirano per distruggere la tolleranza» (K.R. Popper). Laico è, dunque, il cittadino della società aperta. Fuor d’ogni dubbio, anche le regole e le istituzioni della società aperta sono frutto di una specifica tradizione, esito di consapevolezze teoriche e di precise scelte etiche – tese a scardinare le “ragioni” di conflitti e catastrofi che hanno inzuppato, e inzuppano, la terra di sangue innocente. Ma si tratta – diversamente che in ordini sociali tribali e dittatoriali – di consapevolezze e scelte etiche che permettono la pacifica convivenza del maggior numero possibile di individui con idee diverse e di tradizioni differenti. Per dirla con Luigi Einaudi, nella società aperta «l’impero della legge è condizione per l’anarchia degli spiriti».