di Fabio G. Angelini
La sentenza Dobbs della Corte Suprema degli Stati Uniti segna una svolta nel modo di trattare le questioni che attengono al sesso, al matrimonio e alla genitorialità la cui portata va ben oltre la questione dell’aborto, ponendo temi di teoria costituzionale che interessano non solo il costituzionalismo americano ma anche quello europeo.
Ad una lettura più attenta e scevra da quel fervore ideologico che non aiuta certo un sereno dibattito culturale e giuridico sul tema, essa pare alimentare la riflessione teorico-costituzionale su due fronti: quello relativo al concetto di libertà ordinata e quello concernente l’interpretazione del testo costituzionale.
Quanto al primo fronte, la sentenza accende i riflettori su come la disputa riguardi in realtà due diversi modi di concepire la libertà nelle società occidentali: da un lato la libertà intesa quale pretesa individuale ed egoistica, il cui pieno esercizio mal tollera quelle limitazioni derivanti dal groviglio di posizioni giuridiche che caratterizzano il nostro vivere in comunità; dall’altro la libertà intesa nella sua dimensione relazionale e, dunque, ordinata proprio dall’esistenza di tale groviglio di posizioni giuridiche, il cui pieno ed effettivo godimento si fonda perciò proprio sul suo non essere illimitata, dovendosi rapportare con la verità, la natura e con quella comunità sociale nella quale l’individuo è parte.
Per nulla secondario è poi il secondo ambito di riflessione che apre la sentenza, che pone su fronti opposti la critica all’originalismo – tacciato di rappresentare un mero ’stratagemma retorico-persuasivo funzionale alla realizzazione di un attualissimo programma politico di stampo conservatore, volto a rivedere alcune tra le più importanti conquiste giurisprudenziali in tema di diritti civili’ (v. Corrado Caruso) – e il discorso sui limiti dell’interpretazione costituzionale, mettendo sotto i riflettori – come magistralmente evidenziato da Nicoló Zanon – i diversi approcci delle Corti supreme e costituzionali europee rispetto a quello della Supreme Court statunitense laddove, ‘mentre le prime scorgono nel bilanciamento tra principi (anche vagamente) desumibili dai testi costituzionali la cifra essenziale del loro intervento, la seconda, forte della propria nuova maggioranza, si è invece data alla ricerca degli stretti confini della materia costituzionale, che si esaurirebbe nel suo testo’.
Questo è, almeno a parere di chi scrive, il vero cuore della questione. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito ad una tendenza a porre questioni delicate, moralmente divisive ed incidenti sulla complessa trama dei rapporti sociali, sul terreno del diritto costituzionale, facendo per esempio rientrare la regolamentazione dell’aborto entro la sfera della “constitutional adjudication”, piuttosto che su quello del confronto politico-sociale. Tuttavia, ogni volta che in nome di un soggettivismo esasperato si insegue il riconoscimento giuridico di pretese individuali come diritti, prescindendo sia dal loro ancoraggio ad una visione dignitaria che da una valutazione in ordine alla compatibilità degli stessi con la dimensione relazionale dell’uomo, negando quindi l’esistenza di una realtà sociale che precede il diritto e che esso è chiamato a ordinare e mai a manipolare, ci troviamo di fronte a una sconfitta in primis del diritto e poi della società nel suo insieme.
La sentenza Roe v. Wade, recentemente ribaltata dalla Corte Suprema, è stata da sempre ritenuta una delle decisioni più controverse. Essa, sollevando numerosi dubbi nel dibattito costituzionale americano, per la prima volta nella storia generale del diritto costituzionale, aveva riconosciuto la libertà di abortire quale diritto costituzionalmente protetto comprimibile dallo Stato solo a partire dal settimo mese di gravidanza. Fino a tale decisione la regolamentazione dell’aborto era stata semplicemente rimessa alle singole legislazioni statali che, pur nella loro diversità, recepivano le posizioni espresse dalla società americana su questo tema. Le maggiori critiche mosse contro tale sentenza sul piano costituzionale riguardavano infatti non tanto il suo impatto “sociale” quanto piuttosto l’aver delineato un rapporto tra giudice e legislatori fortemente sbilanciato a favore del primo.
Sull’aborto si è assistito ad un processo di costituzionalizzazione che ha condotto progressivamente ad affrontare le complesse questioni giuridiche a cui esso rinvia attraverso le lenti del diritto costituzionale piuttosto che in termini sociali o di politica legislativa. Negli Stati Uniti ciò è sfociato, da un lato, in un continuo e serrato confronto tra giudici e legislatori, alimentato dall’evoluzione delle conoscenze scientifiche e dalle loro necessarie implicazioni sul bilanciamento tra le diverse posizioni soggettive in conflitto e, dall’altro, in una progressiva esasperazione tra posizioni “pro-life” e “pro-choice” quale conseguenza dell’accelerazione impressa dalla Corte rispetto al gioco delle forze operanti nella società.
Al di là di ogni valutazione morale sui singoli temi in discussione, non v’è dubbio sul fatto che questo modo di affrontare le questioni che attengono all’esistenza umana, collocando mere aspettative giuridiche soggettive sul piano del diritto costituzionale, ha avuto significative implicazionisul piano culturale e sociale, contribuendo nel tempo a plasmare le credenze e i comportamenti individuali. E, in tal modo, creando profonde e talvolta insanabili fratture nelle società occidentali e, sotto altro profilo, relegando il fenomeno religioso entro una sfera individuale, negando pertanto qualsivoglia ruolo pubblico alla fede.
È questo il punto su cui occorre maggiormente indugiare. La decisione non impone infatti alcuna nuova restrizione costituzionale all’interruzione di gravidanza. Eventuali restrizioni, se dovessero essere adottate, saranno piuttosto il frutto di scelte legislative dei singoli Stati che, trattandosi di ordinamenti democratici, dovranno pur sempre incontrare il consenso popolare secondo le regole proprie dei processi decisionali di ciascun ordinamento. Nel negare che l’interruzione di gravidanza rientri tra i diritti costituzionali fondamentali quale derivazione del diritto alla privacy tutelato dal XIV Emendamento, la Corte Suprema non ha perciò espresso alcuna posizione morale contro l’aborto, nè negato la possibilità che per ragioni politiche esso possa essere riconosciuto come diritto e, come tale, regolamentato dai singoli legislatori. Con questa decisione, prendendo le distanze dai precedenti Roe e Casey, la Corte si è limitata ad affermare come non spetti al giudice bensì al popoloamericano dirimere una questione così profonda e divisiva sul piano morale.
È il trionfo, potremmo dire, della sovranità popolare e della democrazia sulla tecnocrazia e sulla giurisdizione. Un vittoria che anche nel continente europeo – specie sul terreno dei diritti economici e del loro difficile equilibrio con quelli sociali – abbiamo spesso auspicato, sebbene con risultati non ancora convincenti. Si tratta perciò di prendere atto di come, nelle nostre democrazie liberali, spetti ai processi politico-legislativi e alla società nell’ambito di quei processi di riconoscimento che le sono propri, definire il corretto il bilanciamento tra posizioni giuridiche antitetiche quali sono, nel caso dell’aborto, l’interesse alla tutela della vita del nascituro e il diritto di autodeterminazione della donna.
Da questa prospettiva squisitamente giuridica, la decisione non sembra perciò essere affatto un passo indietro quanto piuttosto un significativo passo in avanti sul fronte del costituzionalismo liberale, sui limiti della constitutional adjudication e, dunque, delle modalità attraverso cui le nostre democrazie sono chiamate a dirimere i conflitti tra valori e visioni morali divergenti. Un passo avanti che però, sul piano politico-sociale e dei processi democratici, restituisce uno spazio nel discorso giuridico e politico-culturale a quelle posizioni che si fondano sull’insegnamento cattolico della “libertà” nei campi del sesso, del matrimonio e della genitorialità e, più in generale, su una visione della “libertà” strettamente legata alla verità, all’intima relazione esistente tra l’uomo e il creato e alla comunità sociale nella quale la persona esiste e (inter)agisce.
La decisione della Corte Suprema, senza prendere posizione sugli interrogativi morali posti dall’aborto e senza negare la possibilità che questo sia riconosciuto come diritto e come tale regolamentato da parte dei singoli legislatori, dimostra dunque che c’è ancora posto nel dibattito attuale per un insegnamento autorevole e ragionato sulla libertà nella verità e sullo sviluppo integrale della persona. E questo è senz’altro un passo avanti per la democrazia.