Flavio Felice
“Avvenire”, 30 marzo 2017
Si può insegnare la carità? No, se la consideriamo per quella che è in se stessa: una virtù che è dono di Dio, e che è la vita stessa di Dio, poiché egli “è carità”. Sì se la intendiamo come uno degli ambiti della vita e dell’agire della Chiesa, che va sotto il nome tecnico di diaconia: il servizio ai bisognosi, che esprime l’anima e il contenuto del Vangelo, che è – di nuovo – la carità.
Il libro di don Paolo Asolan, professore di Teologia Pastorale all’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense, intitolato “Sette lezioni sulla carità” (Editrice San Liberale, Treviso, 2017, pp. 140), vuole provare a sciogliere alcuni nodi che rendono il servizio e la testimonianza della carità così poco stimati e così poco integrati nella vita di fede dei cristiani.
Si tratta innanzitutto di educare il cuore alla carità. Non dunque “cose da fare” delegate agli esperti e ai competenti, ma la concretezza delle relazioni personali. Il libro evidenzia in più punti questo equivoco che scambia la carità per dei servizi che personale specializzato deve rendere a nome della comunità cristiana, e che ne ha determinato la separazione rispetto ad altre dimensioni costitutive (la liturgia, ad esempio, o l’evangelizzazione) oppure l’ipertrofia. In quest’ultimo caso, la carità diventa nella vita delle parrocchie o delle diocesi un contenitore dove tutto quel che riguarda l’altrove, rispetto alla pastorale ordinaria della Chiesa, viene fatto confluire. Si fatica così a distinguere la pastorale sociale dalla Caritas, o la pastorale della salute dalle visite della San Vincenzo, o le scuole di formazione sociale dal compito educativo che le Caritas parrocchiali dovrebbero svolgere.
Il libro si impegna a descrivere alcuni criteri grazie ai quali convertirsi a un modo diverso di fare pastorale. La pastorale, ai nostri giorni, si occupa molto di comunicazione: pare questa la frontiera grazie alla quale il vangelo avanzerà o arretrerà, perso nelle nebbie dell’incomprensione comunicativa dei nostri contemporanei. Si parla perciò molto di nuovi mezzi, di imprecisati “nuovi ambienti”, di fumose “nuove antropologie” quali la Chiesa dovrebbe entrare, pena l’irrilevanza della sua presenza nel mondo, fattosi ormai “necessariamente” mediatico.
Questa “necessaria” distrazione mediatica non sarà piuttosto un equivoco e non risponde forse all’ennesima variante di un ben noto determinismo che oggi sostituisce i “fattori di produzione” con i “mezzi di comunicazione”, mantenendo il verso della relazione materialistica struttura-sovrastruttura? È di questo che abbiamo bisogno – noi e il mondo?
Cristo non dice ai suoi discepoli: «Mandate messaggi al mondo intero» ma Andate nel mondo intero. Il messaggio della fede e la consistenza della carità stanno nella prossimità̀ del messaggero. Il libro scommette su questo fatto rivoluzionario e spiazzante per alcuni guru della comunicazione: la carità non si può rimpiazzare con un prodotto di comunicazione massmediatica, e rimane un dono e un compito sul quale dobbiamo investire molto di più.
Essa implica un fare che è molto umile, cose semplici come offrire da mangiare e da bere, vestire chi è nudo, dare un tetto a chi non ha casa, visitare i malati ed i prigionieri. La virtù̀ più̀ alta si ricongiunge con l’appetito più̀ basso, risponde a questo bisogno primordiale: nutre gli affamati. Questa è la dimensione all’interno della quale la persona realizza in modo pieno la sua vocazione più elevata: quella di costruire la comunità terrena ad immagine della comunità celeste: Caritapolis, per usare un’espressione cara al mio maestro da poco scomparso Michael Novak.
Di questi tempi, nei quali la carità pare nelle nostre comunità quasi un’appendice di servizi offerti dai pensionati ancora attivi e pieni di buona volontà, porre il problema della necessaria formazione permanente anche in questo campo non è un contributo da poco.