Il potere vuoto e la fast democracy

di Antonio Campati

Nelle prossime settimane, il dibattito sulle sorti della democrazia italiana sarà sempre più vivace per via del referendum sulla riforma costituzionale che si terrà in autunno. Cresceranno le analisi, le polemiche e le previsioni sugli scenari futuri, specialmente se si continuerà a far coincidere l’esito referendario con le sorti del governo in carica, o meglio, come lui stesso sostiene, con il futuro politico di Matteo Renzi.

Una delle critiche più frequenti all’architettura istituzionale sulla quale gli italiani dovranno dare il loro parere riguarda la mancanza di adeguati contrappesi al potere che verrebbe a concentrarsi nelle mani del Presidente del Consiglio. Infatti, per alcuni osservatori, l’azione riformatrice dell’attuale governo starebbe favorendo la nascita di una vera e propria «democrazia immediata», dove le mediazioni fra poteri pubblici e corpi intermedi perderebbero quella funzione di discernimento e di compensazione che hanno esercitato in molte occasioni. Ciò consentirebbe l’instaurazione di una democrazia finalmente «decidente», libera dall’influenza dei veti incrociati posti dalle varie corporazioni e pronta ad agganciare la ripresa economica già in atto in alcune aree dell’Europa. In questa nuova conformazione istituzionale, quasi inevitabilmente, il ruolo del capo dell’esecutivo diventerebbe a tutti gli effetti centrale all’interno del sistema politico. Per molti versi, sembrerebbe finalmente giungere in porto quella «grande riforma» che è stata più volte delineata all’interno di diverse Commissioni parlamentari e di studio, ma che non ha mai trovato un riscontro concreto (in un caso, come si ricorderà, perché bocciata proprio da un referendum).

Quella appena evocata non è però una conclusione auspicata da tutti. C’è un fetta di opinione pubblica che non manca di sottolineare i pregi di una democrazia «mediata», dove gli enti intermedi esercitano un ruolo strategico per lo sviluppo democratico e dove il ruolo del parlamento come arena per rappresentare – e ricondurre a sintesi – i diversi interessi e orientamenti dell’opinione pubblica rimane indispensabile per un buon funzionamento delle istituzioni.

Castellani

Il discorso sul nostro paese meriterebbe una riflessione più articolata che dovrebbe svincolarsi da contrapposizioni troppo nette e prevedere una ricostruzione di lungo periodo. Tuttavia, da qualsiasi prospettiva la si voglia tracciare, un’analisi sull’attuale stato di salute della democrazia non può prescindere da quella particolare propensione appena accennata che coinvolge molti altri paesi e quindi altrettanti modelli politici: la tendenza alla disintermediazione tra leadership politiche ed elettori. Tale aspetto viene messo in luce da Lorenzo Castellani nel suo recente Il potere vuoto. Le democrazie liberali e il ventunesimo secolo (Guerini e associati, 2016, pp. 156) quando si spinge a definire l’attuale come una «democrazia permanente e istantanea» dove «l’immediatezza, la pervasività, la velocità del discorso politico sono la caratteristica più penetrante che la tecnologia ha fornito alle forme della politica».

Castellani propone di definirla fast democracy proprio perché caratterizzata dalla ‘velocità’ e quindi dalla possibilità, per i cittadini, di essere informati in tempo reale delle scelte dei vari leader politici, i quali, a loro volta, non disdegnano di proporre referendum permanenti sulle loro scelte. Per chi si occupa direttamente di politica, ciò comporta, da un alto, un’attenzione eccessiva per le strategie comunicative che induce a trascurare i programmi e la formulazione di policy; dall’altro, l’esigenza di alimentare una campagna elettorale permanente, la quale, per sua natura, è legata per buona parte alla contingenza e quindi incapace di collocarsi all’interno di scenari di lungo periodo.

Tali cambiamenti comportano delle profonde trasformazioni nelle dinamiche ‘spaziali’ della democrazia, specialmente fra leader e elettori dove i primi si interfacciano con i secondi superando proprio le strutture intermedie considerate indispensabili fino a pochi anni fa; e, in una prospettiva rovesciata, fra elettori e leader dove i primi hanno un rapporto esclusivo con il capo politico verso il quale mostrano in genere un’ammirazione incondizionata. Queste dinamiche inducono giustamente Castellani a evidenziare uno sdoppiamento del suffragio universale perché a quello di natura «costituzionale», basato su elezioni periodiche e regolato dalla legge, se ne sta delineando un secondo «virtuale» che consente a tutti i cittadini di discutere e giudicare i singoli problemi che ogni giorno la politica (e la società in genere) si trova ad affrontare.

La fast democracy si fonda su una radicale trasformazione delle pratiche con le quali si genera il consenso

Ciò non significa che sta prevalendo un modello di democrazia diretta. La fast democracy non è basata (solo) su modalità di partecipazione immediata dei cittadini, ma si fonda su una radicale trasformazione delle pratiche con le quali si genera il consenso e, quindi, su un ripensamento dei canali della rappresentanza politica. Perché nella «democrazia istantanea» assumono un ruolo dirimente da un lato il sistema dei media e dall’altro le organizzazioni di rappresentanza degli interessi tanto che i classici corpi intermedi somigliano sempre più a dei «gusci vuoti», impotenti davanti all’azione prorompente della leadership governativa e del suo staff.

Castellani propone una serie di raccomandazioni generali per la democrazia del futuro – dal rafforzamento dell’esecutivo alla semplificazione dei livelli di governo; dalla valutazione costante delle politiche pubbliche alla responsabilità degli eletti attraverso formule elettorali maggioritarie fino all’auspicata regolamentazione del lobbying e ad altre ancora – e la basa su una precisa definizione del potere.  Ricorda, infatti, che i governi delle democrazie occidentali devono operare tenendo a mente i tre pilastri del potere politico: il primo è quello che definisce le regole del gioco e determina, attraverso la competizione elettorale, governanti e governati; il secondo descrive come viene utilizzato questo potere, quindi l’atteggiamento con cui l’eletto ricopre l’incarico, mentre il terzo ruota attorno all’autorità che deriva dalla legittimazione. Per Castellani non si può prescindere da questi tre pilastri dal momento che il potere «non è l’abilità di dirigere gli altri e realizzare i propri obiettivi, ma rappresenta solamente la procedura con cui qualcuno viene messo a capo di un ufficio per cui si supponga che realizzi un determinato programma». La capacità di realizzazione di questi, infatti, «non dipende dal potere che risiede in quell’ufficio o funzione, ma dal complesso equilibrio tra potere in sé, utilizzo del potere e autorità che deriva dai primi due».

Cercando di ridurre in poche battute il ragionamento sviluppato ne Il potere vuoto, è importante che questo delicato equilibrio costruito attorno al potere politico favorisca «istituzioni decidenti». Non solo per favorire un’armoniosa convivenza della democrazia con «i nuovi volti del potere nell’emisfero occidentale», ma anche per proporre qualche rimedio alla sua «crisi» nell’ottica del confronto sempre più incalzante, su scala globale, con i regimi autoritari.

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