La deglobalizzazione e la fine del mondo unipolare

Flavio Felice

“Avvenire”, 28 febbraio 2023

Storia del mondo post-occidentale. Cosa resta dell’età globale? (Rubbettino, 2023) è un interessantissimo affresco di storia delle culture attraverso il quale Eugenio Capozzi mostra la vicenda occidentale dalla fine della Guerra fredda ad oggi. Al cuore del volume rileviamo alcune importanti categorie storiografiche e politologiche che l’autore adotta per analizzare il corso degli eventi delle ultime decadi. Le categorie alle quali fa riferimento sono la globalizzazione, l’unipolarismo, il bipolarismo, il multipolarismo, la global politiy e il mondo post-occidentale.

L’Autore avanza la tesi che tutta una serie di elementi, quali ad esempio la concentrazione di potere nelle mani dei grandi oligopolisti dell’industria digitale, lo strapotere della tecnoscenza che ha favorito la formazione di governi tecnocratici, la secolarizzazione radical che promuove una pedagogia del politically correct e tendenze censorie come quelle della cancel culture o del woke capitalism, fino a giungere ad un ambientalismo della decrescita che si contrappone allo sviluppo economico, inducono a pensare che la globalizzazione abbia mandato in crisi l’idea stessa di Occidente.

Uno degli argomenti adottati da Capozzi a sostegno della sua tesi appare particolarmente importante e riguarda la consapevolezza di essere ormai entrati in una dimensione “post-occidentale”, poiché l’aspirazione universalistica appare sempre meno realistica, di fronte alla tendenza ad un riequilibrio politico e culturale generale tra Occidente e tutto il resto del mondo. Il che segnerebbe la fine del processo di globalizzazione, intesa come progressiva interdipendenza nel campo politico, economico e culturale, e l’inizio di un altro processo, definito “de-globalizzazione”. In poche parole, la tendenza alla «riaggregazione di una pluralità di spazi di condivisione economica e politica, non integrati tra loro»; tale riaggregazione sembrerebbe rinviare alla nozione, non certo rassicurante, di “Grandi spazi” teorizzata da Carl Schmitt come superamento della forma Stato e come rimedio ad un astratto universalismo liberale.

Una conseguenza significativa di tale processo di de-globalizzazione, consumato nel trentennio successivo alla fine della Guerra fredda, è stato l’esaurimento della spinta unipolarista che ha visto gli Stati Uniti attori protagonisti, oltre alla fine di un multipolarismo “non sistemico”. La consunzione di tale ordine internazionale spinge Capozzi ad immaginare una nuova sistemazione fondata su differenti “spartiacque divisivi”, accomunati dal ridimensionamento dell’Occidente e dall’emergere di culture che, sebbene nascano dal ventre occidentale, si contraddistinguono per una radicale critica alla sua cultura tradizionale.

È il caso, ad esempio, della cosiddetta “utopia diversitaria”, così definita dal sociologo Mathieu Bock-Côté, che raccoglie una pluralità di matrici culturali che vanno dall’esistenzialismo di Sartre agli epigoni della Scuola di Francoforte, dal post-strutturalismo di Jacques Derrida alla critica di Michel Foucault. Un “diversitarismo”, afferma l’autore, che vede «nell’assenza di una verità e di un’identità universalmente condivisibile il fine della storia umana». È il tema della “ribellione delle élite” di Christopher Lasch, della ribellione di quelle classi dominanti che percepiscono se stesse come sideralmente lontane dalla “mentalità della plebe”, espressione quest’ultima di un mondo ancora “primitivo”, da “convertire”, ricorrendo ad un’operazione di supponente “pedagogia civile”.

Il fatto che in ampi settori della cultura e della politica occidentale sia prevalsa l’idea che la vittoria sul sistema socialista potesse indicare la fine stessa della storia ha significato l’abbandono del pluralismo fallibilista come categoria fondante l’Occidente liberale e ha comportato l’assunzione della nozione di egemonia, che si manifesta anche nelle tante espressioni del politicamente corretto, della woke culture e della violenta censura nei confronti di chiunque non sia allineato alla moda e al costume del momento; disallineato rispetto al preteso senso della storia, una direzione obbligata e necessaria, in nome della quale si acquisterebbe il diritto di imporla, negando la cittadinanza democratica a coloro che si permettono di avanzare visioni alternative. Una mutazione genetica che ha portato la democrazia a presentarsi con la stessa arroganza e fallacia metodologica con le quali il socialismo si era imposto e per le quali è fallito, mostrandosi disumano e incapace di imparare dai propri errori.

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