Dossier Europa. Quale futuro dopo la Brexit?

Oltre Spinelli. L’Europa può ripartire dalla tesi dell’Hayek federalista

di Flavio Felice

(articolo apparso su “Il foglio” del 23 agosto 2016)

downloadLa decisione del popolo britannico di uscire dall’Unione Europea ci spinge a riflettere sul futuro del continente, sulla sua cultura politica e sulle sfide che lo attendono, come d’altronde pare si sia tentato di fare nel Vertice a tre tra Renzi, Hollande e Merkel. In molti hanno salutato con favore l’esito del referendum e hanno brindato alla liberazione dalla euro-burocrazia. Personalmente ho provato un senso di smarrimento, non tanto per la Gran Bretagna, quanto per il peso politico che la cultura politica liberale di matrice anglosassone ha avuto nella diffusione della democrazia e per lo scetticismo che provo nei confronti delle culture politiche continentale, troppo spesso nella storia attardate ad assistere con simpatia e complicità alla deriva dello stato totalitario.

Tra i maggiori esponenti di quella tradizione del liberalismo anglosassone che ha resistito ad ogni forma di totalitarismo vorrei ricordare l’economista austriaco Friedrich August von Hayek. In particolare, Hayek, sul finire degli anni ’30, ha offerto un contributo significativo alla causa del federalismo europeo. Nel settembre del 1939 l’economista austriaco pubblicherà il saggioThe Economic Condition of Inter-State Federalism. Pur non essendo tra i saggi più noti, esso ha il merito di evidenziare un tratto storico e biografico del nostro Autore di estrema importanza: l’aver compreso quanto le questioni filosofiche e metodologiche siano rilevanti ai fini di comprendere le ragioni che stanno alla base delle controversie politiche ed economiche.

Il saggio di Hayek sulle condizioni economiche del federalismo, di recente pubblicato per la prima volta in Italia da Rubbettino, esprime in forma sintetica le ragioni economiche del federalismo e tutta la critica all’idea sovranistica mossa dall’economista austriaco, insieme ad autori del calibro di Lionel Robbins, Wilhelm Röpke, Luigi Einaudi e Luigi Sturzo.

Il saggio mette in evidenza cinque aspetti: la pace, in quanto valore alla base della teoria dello stato federale; i vantaggi economici del federalismo; i vantaggi politici del federalismo; la qualità della politica economica in un’unione federale; la relazione tra liberalismo e federalismo. Se è vero che un regime economico chiaramente liberale sia da considerare condizione necessaria per il successo di qualsiasi progetto federalista, allora, chiosa Hayek, dovremmo ritenere altrettanto plausibile che «l’abrogazione delle sovranità nazionali e la creazione di un ordine giuridico internazionale efficace è un complemento necessario, nonché il logico compimento del programma liberale».

Hayek intende richiamare l’attenzione verso la rinascita dei principi liberali, in quanto prospettiva civile capace di tenere insieme l’ambito dell’economia, quello della politica e quello della cultura. A testimoniare un simile proposito è un breve documento che Hayek scriverà a Londra nell’agosto del 1945: Memorandum on the Proposed Foundation of an International Academy for Political Philosophy Called “The Acton-Tocqueville Society”. Si tratta di un documento molto interessante, in quanto in esso Hayek esprime l’intenzione di dar vita ad un’associazione internazionale che tenga insieme scienziati sociali di impostazione liberale (credenti e non), provenienti da tutto il mondo. Sarà il documento che porterà alla nascita della nota associazione Mont Pelerin Society, costituita in Svizzera il 10 aprile del 1947 e che vedrà tra i fondatori pensatori del calibro di Ludwig von Mises, Walter Eucken, Wilhelm Röpke, Karl Popper e tanti altri importanti intellettuali liberali dell’epoca.

Con l’uscita della Gran Bretagna dalla UE l’Unione rischia di essere decisamente più debole, sotto il profilo del tasso di liberalismo, e i problemi sollevati – tra gli altri – da Hayek, Robbins, Röpke, Einaudi e Sturzo tornano drammaticamente d’attualità.

Forse dovremmo ripartire proprio dal proposito di Hayek di dar vita ad una vasta lega della libertà a livello europeo, non volendoci arrendere al populismo autarchico, al totalitarismo aggressivo e al protezionismo liberticida, amando la libertà propria e altrui più di ogni altra cosa ed amando la patria altrui almeno quanto la propria. Consapevoli che nessun ordinamento burocratico – pubblico o privato che sia – possa evitare e negligere la realtà che esiste sempre qualcosa, come recita il testamento spirituale di Röpke, “oltre l’offerta e la domanda”. Questo qualcosa è la dignità della persona umana; un ordine etico, quello della dignità umana, che chiede ancor oggi di essere compreso con la massima urgenza e profondità per non correre il rischio di sacrificare il dinamismo economico al ristagno degli accordi collettivi ovvero all’anarchismo degli interessi individuali, rispettivamente, figli di una logica neocorporativa ovvero di un ottimistico disinteresse per le ragioni dell’ordine sociale e dellacivitas humana, e finire per sacrificare le libere scelte individuali sull’altare della “presunzione fatale” del Grande Pianificatore.

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Servire il popolo non servirsene. La sfida per le élite

di Fabio G. Angelini e Antonio Campati

(articolo apparso sul sito dell’agenzia Sir il 29 giugno 2016)

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Elezioni amministrative, ma anche Brexit e riforme costituzionali. Sembra proprio che l’attualità politica voglia farci riflettere su quella delicata relazione che sussiste tra un popolo e la sua classe dirigente. Si dirà, è una relazione in crisi. Vero, eppure è proprio su quel piano che bisogna agire per innescare il circolo virtuoso dell’inclusione istituzionale, centrale nel magistero sociale della Chiesa.

Partiamo dalle amministrative. Il dato emerso in modo chiaro è l’affermazione di candidati anti-establishment. Tutti privi di legami (se non debolissimi) con i partiti, esprimono una chiara discontinuità rispetto alle amministrazioni precedenti. Non si tratta di una tendenza inedita ma di una costante da quando vige l’elezione diretta del sindaco, a sua volta figlia della frattura tra popolo e classe dirigente delineatasi all’inizio degli anni ’90. Se però, alla semplice rottura con le passate gestioni, si aggiunge la certificazione della mancanza di una credibile classe dirigente locale, ovvero la sua disfatta a beneficio degli outsider, allora l’analisi cambia. Questa tendenza registra un vero e proprio distacco fra vertice politico nazionale e organizzazioni periferiche.

Occorre esser chiari. Non crediamo si tratti di una passeggera disaffezione alla politica. La vittoria del M5S dimostra che, se da un lato non mancano attivisti interessati a impegnarsi sul territorio, dall’altro, è forte lo scollamento fra partecipazione civica e proposta politico-partitica.

Il proliferare di liste civiche è indicativo di un desiderio di partecipazione che non è più canalizzato dai partiti, ma è espresso da raggruppamenti, spesso ideologicamente eterogenei, che propongono proposte concrete, rispondenti ai bisogni reali dei cittadini che quindi le apprezzano e le votano. Opzioni di tal genere, che pure hanno prodotto risultati significativi in termini di policy, hanno però un grande limite: prosciugano in partenza il bacino dal quale i partiti potrebbero attingere per rinnovare la loro classe dirigente. Con ciò, non si intende attenuare le colpe dei partiti, ma si vuole constatare come la responsabilità che la dottrina sociale della Chiesa affida loro – ovvero, quella di favorire una partecipazione diffusa e l’accesso di tutti a pubbliche responsabilità – stia via via assumendo colori sempre più sbiaditi. È evidente però che, se i canali che dovrebbero permetterla sono ostruiti, risulterà preclusa qualsiasi forma di virtuosa circolazione delle élite. E questo, è un danno.

V’è dunque da chiedersi se le élite siano auspicabili e quale ruolo possono giocare nei sistemi democratici. In altri termini, se sia pensabile o meno farne a meno. Le élite possono spesso apparire (e finanche esserlo) oligarchie chiuse e autoreferenziali. Laddove ciò avvenga, sono l’avamposto delle istituzioni estrattive e di sistemi economici destinati all’impoverimento, non solo materiale. È vero, però, che esse possono anche incarnare minoranze creative, indispensabili per un (buon) funzionamento della democrazia. Divenendo, al contrario, l’architrave delle istituzioni inclusive e dello sviluppo economico.

È su queste seconde che occorre focalizzare l’attenzione, poiché la distanza che oggi separa i “pochi” dai “molti” non si riduce puntando il dito contro la funzione organizzatrice dei primi. Il governo di una comunità è di necessità nelle mani di pochi, anche in una società liquida influenzata dalle dinamiche del web. Chi fa finta di non cogliere questo passaggio si preclude la possibilità di educare e formare la futura classe dirigente.

Poiché sono le minoranze di governo (europee, nazionali e locali) che incarnano le istituzioni, sono proprio queste che, a loro volta, possono incarnare politiche pubbliche solidali e inclusive.

Sono sempre le élite, inoltre, che riescono a governare in modo pacifico quell’imprescindibile elemento di conflitto insito nelle democrazie. E il conflitto, come ci insegna Francesco, non può essere ignorato o dissimulato. Anzi, dobbiamo accettarlo e “trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (Evangelii gaudium 227).

Le élite, dunque, sono importanti per il futuro delle nostre città, così come pure – volgendo lo sguardo sul fronte delle riforme istituzionali – del nostro Paese. Ma forse lo sono ancora di più per il futuro dell’Europa. Non dimentichiamoci che sono state élite illuminate quelle che dopo la Seconda guerra mondiale hanno posto le basi per una pace duratura nel vecchio continente. Sempre quelle stesse élite costruirono un progetto di lungo periodo per la crescita dei loro Paesi. Da allora molto è cambiato.

Oggi, le élite europee appaiono simili a minoranze tecnocratiche, incapaci di capire i bisogni concreti dei cittadini e, per di più, percepite come soggetti estranei dai popoli che rappresentano.
La decisione della Gran Bretagna di uscire dall’Europa conferma questa impressione. Ci sembra che il tema sia il medesimo su cui i risultati delle elezioni amministrative hanno acceso i riflettori. Una crescente sfiducia verso chi incarna il potere che, da un lato, si manifesta con modalità inedite e, dall’altro, è incapace di rigenerarsi facendo emergere minoranze creative come lo furono, per l’Italia e l’Europa i cattolici nel secondo dopoguerra. Saremo in grado di invertire la tendenza solo se sapremo cogliere le ragioni profonde di tale sfiducia e se una minoranza creativa saprà raccogliere la sfida di testimoniare il principio della centralità della persona declinandolo in cornici istituzionali più inclusive, in grado di supportare e incoraggiare il dinamismo della società civile anziché servirsene quale strumento proprio di dominio. Di servire (il popolo), non servirsene.

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È possibile riformare l’Europa?

di Lorenzo Impaloni 

(articolo apparso sul sito dell’Istituto di politica http://www.istitutodipolitica.it)

europe 2Nel 1987 l’allora presidente sovietico Michail Gorbaciov scriveva il suo saggio più importante, Perestojka, nel quale sosteneva di voler riformare il suo Paese ed eliminare quelle che si erano dimostrate le maggiori criticità (corruzione, inefficienza, eccesso di burocrazia, parassitismo) e di volerlo fare ripartendo dai principi e dagli ideali del comunismo di matrice marxista-leninista. Non è necessario ricordare nel dettaglio come sia andata a finire, con la caduta del muro appena due anni dopo a sancire la conclusione del fallimentare esperimento dell’Urss ma, senza voler sminuire il ruolo che Gorbaciov ebbe nella svolta culturale che portò poi alla disgregazione dell’Unione Sovietica, bisogna allo stesso tempo evidenziare come anch’egli avesse frainteso lo spirito del comunismo, non riuscendo a capire che tutti quegli aspetti negativi che egli intendeva risolvere fossero insiti nella dottrina elaborata da Marx e che non sarebbe stato possibile eliminarli senza prescindere da essa.

Ad oggi, con un atteggiamento e una fiducia che ricordano quelli di Gorbaciov, molti autori liberali ritengono possibile riformare l’Unione Europea ed eliminarne o quantomeno limitarne le problematicità (sinistramente simili a quelle dell’Urss), ripartendo dai principi che ne hanno ispirato la nascita.

Ma questi principi su cui l’integrazione europea si basa sono rinvenibili soprattutto nelle tesi esposte da figure come Spinelli, Rossi e Colorni nel Manifesto di Ventotene, da Kant in Per la pace perpetua o da Rousseau in Il contratto sociale, autori che hanno ben poco (o nulla nel caso del filosofo francese) di liberale.

Lo scritto di Rousseau, che ha ispirato la Rivoluzione Francese finita nel Terrore, si è posto come base per la struttura degli odierni Stati nazionali, che hanno spesso e volentieri sottomesso la volontà individuale a quella della collettività, e di conseguenza dell’Unione Europea che quegli stessi Stati hanno creato, dandole connotazioni paternaliste e autoritarie che troppo spesso l’hanno resa restia ad ascoltare le voci dei popoli che di essa fanno parte, limitandone la libertà di scelta tanto cara ai liberali.

A loro volta i primi due testi citati sono, sotto certi aspetti, molto simili. Entrambi partono dal presupposto per cui gli Stati si farebbero vicendevolmente torto per il solo fatto di essere tra loro in una situazione di anarchia che potrebbe sfociare in una guerra aperta e, dunque, prima questione da risolvere sarà l’abolizione della divisione in Stati nazionali dell’Europa prima e del mondo intero poi, tramite un’entità superiore con il potere politico e militare di far rispettare il diritto da essa imposto. Non basta l’idea espressa da Kant secondo cui il commercio è un veicolo di pace per fare del filosofo tedesco un liberale, poiché alla concorrenza economica è sempre necessaria quella concorrenza istituzionale che egli sacrifica sull’altare della sicurezza come già aveva fatto Hobbes.

Se il manifesto di Ventotene, invece, sembra in un primo momento plaudire al principio di autodeterminazione che ha garantito a molti popoli di liberarsi dall’oppressione straniera, in un secondo momento esso è considerato una delle cause del nazionalismo ed è così che viene sancita l’assurdità di quel principio “secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che crede”. Gli Stati Uniti d’Europa che gli autori delineano, quindi, sembrano essere molto simili allo Stato di matrice rousseauviana in cui i legislatori conducono il popolo ignorante lontano dai desideri individuali e verso ciò che è davvero buono per la collettività in generale. L’autodeterminazione viene così considerata la causa dei conflitti che hanno insanguinato l’Europa, mentre la realtà è che queste guerre sono state combattute proprio contro coloro che, come Napoleone e Hitler, questo principio volevano negarlo e intendevano unificare il continente con l’uso della forza.

E se qualcuno avesse ancora dubbi sull’ideologia politica del movimento rivoluzionario che Spinelli e Rossi avevano in mente basterà citare qualche altro passo del manifesto per fugarli: “la rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista”; o ancora: “la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno”; “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso” e così via.

Vedere oggi i maggiori capi di Stato o di governo europei recarsi di nuovo a Ventotene a commemorare i padri fondatori dell’Ue nella speranza di far ripartire con maggior vigore, in questo momento difficile, il processo di integrazione e sentire le dichiarazioni di importanti esponenti politici di varie nazionalità che si scagliano contro gli inglesi che hanno scelto il Leave o contro chi ha permesso loro di votare, ci ricorda come questa istituzione non possa considerarsi liberale e come risulti troppo spesso allergica ad una accettazione integrale del principio democratico in tutte le sue forme.

D’altronde, già Gordon Tullock, nel suo saggio La scelta federale del 1994, aveva intravisto la natura illiberale dell’Unione Europea ed evidenziava come il Mercato Comune Europeo, che doveva sancire la libertà di movimento di persone e merci all’interno dell’Ue tramite il trattato di Schengen, avesse avuto paradossalmente lo stesso effetto del Muro di Berlino caduto cinque anni prima, quello di negare ai cittadini di votare con i piedi. L’economista statunitense scriveva che “la burocrazia di Bruxelles sta attivamente cercando di far sì che i diversi paesi adottino regole identiche in molte aree allo scopo di stabilire una sorta di cartello in cui non ci sia voto con i piedi; in altre parole non ci sia concorrenza”. Posizione assai lungimirante visto quello che sta succedendo in questi giorni.

È pur vero che molti intellettuali liberali come Hayek, Robbins, Sturzo o Einaudi, nel secondo dopoguerra, hanno teorizzato la nascita di una federazione europea necessaria a porre fine a decenni di conflitto armato, ma le loro idee sono rimaste marginali ed hanno influenzato in maniera minima il successivo sviluppo dell’Unione.

Quel risveglio del sentimento liberale teorizzato da questi autori di fatto non è mai avvenuto, quantomeno non nell’Europa continentale, e di conseguenza l’Ue, sin dai suoi albori, ha seguito un percorso ben diverso. Quel federalismo capace di salvaguardare allo stesso tempo la pace, la libertà economica e i diritti delle minoranze e di limitare la sovranità nazionale non si è mai realizzato. Gli Stati nazionali sono semplicemente stati sostituiti da un mega Stato con tendenze centralizzanti e omologanti che limitano la concorrenza economica ed istituzionale all’interno della federazione e negano alle minoranze ogni possibilità di autodeterminarsi. Lungi dallo svolgere semplicemente il ruolo di garante della pace l’Unione Europea ha esteso la sua influenza nei più diversi ambiti nel tentativo di rendere sempre minori le differenze tra gli Stati membri.

Alla base di questo non riuscito progetto liberale vi è, probabilmente, anche un errore di valutazione riguardo alle caratteristiche del federalismo e al ruolo che l’Ue avrebbe svolto in futuro. Per creare una federazione di stampo liberale, infatti, non è sufficiente mettere insieme un gruppo di Stati e sottoporli alla giurisdizione di un organismo sovrastatale, ma sarà innanzitutto necessario che questa unione sia volontaria o, come scriveva Hayek, spontanea.

Con ciò intendendo, però, che ogni comunità dovrebbe avere la possibilità non solo di entrare a far parte in ogni momento della federazione (previa accettazione da parte degli altri aderenti al patto), ma anche la libertà di uscirne, in maniera semplice e senza ingerenze o ritorsioni, laddove non ritenga più conveniente farne parte. Solo questo principio può garantire la difesa della concorrenza istituzionale ed economica necessaria alla tutela delle minoranze ed evitare un incontrollato aumento del potere centrale, in modo che, come scritto da Elazar, la diffusione del potere non diventi una concessione, ma rimanga un diritto. D’altronde, così come la concorrenza nel commercio garantisce prezzi più bassi e una scelta più ampia per i consumatori, la concorrenza tra istituzioni favorisce lo sviluppo di best practices e la possibilità per il cittadino di scegliere tra una varietà di contesti normativi, culturali e sociali quale ritiene il più adatto al suo modello di vita.

Fanno bene, dunque, il liberali continentali a rammaricarsi per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, che in questo modo perde la sua ala da sempre più liberale (e non a caso, sin dal celebre discorso di Margareth Thatcher, anche la più restia ad accettare il processo d’integrazione), ed allo stesso modo fanno bene a temere una deriva ancor più socialista dell’Europa una volta che la Brexit sarà divenuta realtà a tutti gli effetti. D’altro canto essi sbagliano quando rimproverano ai sudditi di Sua Maestà di aver abbandonato una barca alla deriva in nome di un principio di solidarietà che non appartiene a questa Unione o a ritenere che il risultato del referendum segni la vittoria di coloro che sognano il riemergere dei vecchi nazionalismi, resi anch’essi obsoleti dalla globalizzazione, come Farage, LePen o Salvini.

Il referendum ha sancito la vittoria di quella parte di popolazione silenziosa di fronte ai media, ma che, una volta che gli è stata data la possibilità di esprimersi, ha deciso di rendersi indipendente da ogni vincolo nei confronti di una istituzione da cui non si sentiva rappresentata poiché in aperto contrasto con i principi di libertà individuale che fanno parte del background culturale britannico fin dalla Magna Charta del 1215 e che ha subito sulla propria pelle le errate scelte politiche dell’élite continentale.

I liberali europei, che durante il dibattito sul referendum hanno perso l’ennesima occasione per far sentire la propria voce e per portare all’attenzione dei media un progetto alternativo sia al dirigismo europeo che al vecchio nazionalismo, dovrebbero mettere in atto ciò che fino ad ora la classe dirigente si è rifiutata di fare: chiedersi per quale motivo l’esperimento europeo si stia rivelando per molti aspetti fallimentare e per quale ragione il primo Paese a dar il ben servito a Bruxelles sia stato proprio il più liberale. Dovrebbero abbandonare il dogma europeista che si fonda ormai solo sulla paura di cosa possa esserci al di fuori dell’Unione e chiedersi se sia possibile riformarla in senso liberale o se non si stia rischiando di fare lo stesso errore compiuto da Gorbaciov quasi trent’anni fa.

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Dopo la Brexit serve un’Europa “nazione di nazioni”

di Flavio Felice

(articolo apparso su “Il Sussidiario.net” – 11 agosto 2016)

 

images (1)Premesso che Brexit o non Brexit, un europeista come il sottoscritto sarà sempre europeista, non possiamo non registrare una forte battuta d’arresto del progetto d’integrazione europea e la profonda crisi nella quale ormai esso sembra essere caduto. Di fronte ad un certo entusiasmo manifestato dalla comunità euroscettica mondiale, esaltata e confermata nel proprio scetticismo dalla decisione dei sudditi di “Sua Maestà” di abbandonare l’UE, ho provato un magone allo stomaco; la sintetica riflessione che segue è il frutto delle discussioni avute in questi giorni con gli amici del Centro Studi Tocqueville-Acton, con gli studenti e i docenti del “Free Society Seminar” di Bratislava e con i colleghi Dario Antiseri, Rocco Buttiglione, Dario Velo e Michael Wohlgemuth.

Invero, non si può dimenticare come, nelle prove della storia, il Regno Unito si sia dimostrato la patria del liberalismo e la culla dell’istituzione parlamentare, il bastione della libertà europea, mentre il Continente si attardava in autoritarismi, totalitarismi e guerre nazionaliste e fratricide.

È per questo che oggi l’UE è indubbiamente più povera, almeno in termini di cultura politica liberale, e meno attrezzata per affrontare con coraggio le sfide della competizione globale.

D’altro canto, occorre anche chiedersi quanto questa Gran Bretagna conservi di quella cultura e quanto invece non l’abbia rinnegata, assumendo una posa politica di negazione pragmaticamente ottusa delle quattro libertà fondamentali dell’Europa unita: movimento di merci, servizi, capitali e persone. Negando specie quest’ultima, si cade nel più banale protezionismo, arroccandosi intorno ad una anacronistica nozione sovranità nazionale.

Eppure non mancavano anticorpi a questa deriva: tra i tanti, voglio menzionare la lezione dell’economista federalista e liberale Lionel Robbins e del suo collega austriaco Friedrich August von Hayek. Entrambi hanno sognato un contributo all’edificazione dell’Europa completamente diverso dagli esiti odierni. Nei loro saggi, rispettivamente, L’anarchia internazionale e l’economia liberale e L’anarchia internazionale e l’economia socialista del 1937 e Le condizioni economiche del federalismo tra gli Stati (1939), ora in uscita per i tipi Rubbettino, Robbins e Hayek mostrano l’impossibilità, per un sistema liberale, di sopravvivere all’interno di un sistema internazionale fondato sulla rigida divisione in Stati nazionali, evidenziando come la pianificazione della produzione a livello internazionale, e la progressiva perdita della libertà economica, sviluppi una corrente mirante a sostituire le forme democratiche di un’organizzazione con un sistema dittatoriale; di qui l’esigenza, avvertita dai fautori del “liberalismo ordinamentale” e dell’economia sociale di mercato, di una costituzione economica che promuova la concorrenza su scala globale.

Per entrambi, l’obiettivo è l’edificazione di un sistema mondiale capace di adattarsi ai mutamenti e tale da fornire incentivi all’adattamento, attraverso un complesso di istituzioni idonee ad affrontare le difficoltà dell’organizzazione su scala mondiale.

Questa insistenza sulle istituzioni è ciò che distingue il loro liberalismo da quella caricatura che lo intende come mero sistema anarchico, privo di regole, nel quale regna il disordine che avvantaggia gli individui senza alcuno scrupolo.

Ma non sono soli: con loro, anche Wilhelm Röpke, Luigi Einaudi e Luigi Sturzo, si schierarono apertamente a favore di un’organizzazione sopranazionale sul modello dell’esperimento degli Stati Uniti d’America, facendo propria in tutti i suoi principi la teoria dello Stato federale di Hamilton. Dopo aver mostrato i disastri causati da un sistema internazionale basato sulla divisione anarchica in Stati sovrani (Staatenbund) e considerata l’impossibilità di edificare un grande Stato unitario (Einheitsstaat) a competenza universale, il quale porterebbe ad un livello insostenibile tutti gli aspetti negativi ed illiberali dei piccoli Stati unitari, questi autori, padri morali dell’Europa unita, affermano la necessità non tanto di una rivoluzione economica, quanto di una rivoluzione politica, in cui ciascuno Stato sovrano nazionale sottometta una serie di diritti ad un sistema di autorità internazionali, ma dove nello stesso tempo anche i diritti delle autorità internazionali vengano limitati a favore delle entità regionali. Come scrive Robbins, «non si deve giungere né a un’alleanza né a una completa unificazione, ma ad una federazione (Bundesstaat)».

A questo punto, che cosa è accaduto perché da tanta cultura liberale, federalista ed europeista sia potuta maturare una maggioranza di britannici che al sogno federalista ha preferito la piccola patria? Forse in questi anni abbiamo parlato troppo di burocrazia europea e troppo poco di economia reale europea, e ancor di meno di politica europea, di cultura europea. I Padri fondatori dell’UE, e con loro Giovanni Paolo II ed Helmut Kohl, avevano una visione dell’Europa come famiglia di nazioni che unificava nazioni affratellate da una comune radice cristiana. Era una Europa “nazione di nazioni”, in cui la propria originaria identità nazionale si ampliava in una più comprensiva identità europea. Per questo era essenziale che questa Europa avesse delle radici: ebraico-cristiane e greco-latine. Avere delle radici significa anche avere dei confini, aprirsi gradualmente a chi ci è più vicino. I popoli possono essere generosi verso i profughi, ma vogliono possedere le chiavi di casa propria e costruire la fratellanza universale a partire dalla unità con quanti sono culturalmente più vicini. L’apertura illimitata ed indiscriminata genera alla fine un timore ed un rifiuto altrettanto illimitato ed indiscriminato.

Quindi, all’indomani della Brexit, “Keep calm and Reform Europe”, ripartendo dai principi di solidarietà e di sussidiarietà, principi liberali e cristiani che hanno ispirato i Fondatori e che la cultura politica britannica ha contribuito a sviluppare e a lasciarci in eredità, ma dei quali sembra essersi dimenticata.

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