Dario Antiseri
Testo dell’intervento tenuto al convegno di Cagliari su “Il pensiero polifonico di Pavel Florenskij, pubblicato nel volume degli atti, a cura di Dilvano Tagliagambe, Massimiliano Spano, Andrea Oppo, PFTS University Press, Cagliari, 2018
- «La scelta fra l’esistenza e l’inesistenza di Dio – ha scritto Luigi Pareyson – è un atto esistenziale di accettazione o ripudio, in cui il singolo uomo decide a suo rischio se per lui la vita ha un senso oppure è assurda, giacché a questa opzione si riduce in fondo e senza residuo quel dilemma. Tale opzione è eminentemente religiosa, anche quando si risolva in senso negativo, perché il ripudio di Dio è così strettamente legato all’accoglimento che in alternativa si può farne, che ne conserva sempre un’inconsapevole nostalgia. La filosofia, poi, in quanto sopravviene a scelta già fatta, non ha più voce in capitolo, non certo per affermare l’esistenza di Dio, ma nemmeno per negarla, perché anche il ripudio di Dio non è frutto d’un ragionamento, ma atto profondo e originario della persona. D’altra parte la filosofia non ha il compito di dimostrare l’esistenza di Dio, perché essa non estende la conoscenza a nuovi ambiti di realtà, ma riflette su esperienze esistenziali: il suo compito non è dimostrativo, ma ermeneutico». E va da sé che il credente che non ha dubbi non ha fede. Hanno dubitato gli Apostoli. La “notte dell’anima” è esperienza di grandi anime mistiche. «L’uomo religioso – è ancora Pareyson a parlare – può capire il dubbio, che non è se non il risvolto della sua fede, un aspetto essenziale di essa o un suo momento interno, giacché la fede è ben lungi dall’essere un possesso tranquillo, sicuro e incontrastato, favorito dalla tradizione e ribadito dall’abitudine, ché anzi spesso è lotta durissima e tensione lancinante, appena lenita dalla consapevolezza ch’essa è cosa vivente e vivificatrice, bastevole a ispirare e riempire una vita intera».
Dunque, se non hai dubbi non hai fede. Ma l’ateo troppo sicuro di sé usa o abusa della ragione? Quale prova è disponibile per poter sostenere che il tutto-della-realtà è rigorosamente e convincentemente riducibile a quella realtà di cui parla e può parlare la scienza? L’ateismo non è una teoria scientifica. E non è certamente la scienza, finché la ricerca rimane nel suo legittimo ambito di azione, a negare la possibilità di una realtà trascendente. E c’è di più. Difatti, se la fede conduce al mistero di un Dio creatore, l’ateo non si trova pure lui di fronte al fatto misterioso di un grumo di materia originario da cui si è sviluppata e si sviluppa la storia dell’universo? Questo grumo di materia si è autocreato? La fisica sposta la “grande domanda” – la domanda metafisica –, non la elimina. Così come non la elimina, anzi la genera, la teoria dell’evoluzione della vita. Nessuno può negare che la scienza – con le sue domande e le sue risposte e la sua storia – non abbia alcun valore perché costruita da un essere che avrebbe per antenato una “scimmia”. Ma questa “scimmia” rimessa a nuovo, oltre che porsi problemi scientifici, si è posta e seguita a porsi il problema del “senso”, del “senso del tutto”, un problema eminentemente religioso. E, allora, con quali argomenti lo scientista evoluzionista potrà affermare insensatezza, illusorietà della “richiesta di senso”, cioè della domanda religiosa? La realtà è che la teoria evolutiva della vita non solo non cancella il problema religioso, ma lo fa emergere. Scrive Darwin: «Il sentimento di devozione religiosa è sommamente complesso perché consta di amore, di compiuta sommissione ad un essere superiore elevato e misterioso, di un forte sentimento di dipendenza, di timore, di riverenza, di gratitudine, di speranza nell’avvenire, e forse di altri elementi. Nessuna creatura potrebbe provare un’emozione tanto complessa, senza che le sue facoltà morali e intellettuali abbiano raggiunto un certo grado di elevatezza».
- È stato Max Weber ad affermare ne La scienza come professione che «la tensione tra la sfera dei valori della “scienza” e quella della salvezza religiosa è insanabile». Il progresso scientifico – dice Weber – «è una frazione, e senza dubbio la più importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale andiamo soggetti da secoli». E tale «progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione» sta a significare che «la coscienza o la fede che basta soltanto volere, per potere ogni cosa – in linea di principio – può essere dominata con la ragione. Il che significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarsi gli spiriti come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze. A ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici. È soprattutto questo il significato della intellettualizzazione come tale». Insomma: «È il destino dell’epoca nostra, con la sua caratteristica razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disincantamento del mondo, che proprio i valori supremi e sublimi sian divenuti estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel regno extramondano della vita mistica o nella fraternità dei rapporti immediati e diretti tra i singoli». In ogni modo, chi decide di entrare nelle braccia delle antiche chiese dovrà compiere, inevitabilmente, “il sacrificio dell’intelletto”, come è il caso, per esempio, di ogni teologia “positiva”, in cui «il credente giunge al punto dov’è valida la massima agostiniana: “Credo non quod, sed quia absurdum est”».
- Per Weber, dunque, è quello di un aut-aut il rapporto tra la sfera dei valori della scienza e quella dei valori religiosi. Ma la situazione è proprio questa? Un mondo disincantato dalla scienza, letto cioè dalle teorie scientifiche, è un mondo che implica di necessità la negazione di un Creatore ovvero è un mondo in cui dalla fede del credente vengono strappate via le croste di ataviche superstizioni? Un mondo senza ninfe dietro ad una sorgente o senza un irritato Giove che lancia fulmini sugli uomini è davvero un universo in grado di proibire senza appello ogni traccia di Trascendenza? E poi – questione di maggior rilievo – è la scienza che desacralizza il mondo ovvero il mondo, per essere investigato scientificamente, dev’essere un mondo già desacralizzato, disincantato? Ecco, a tal riguardo, la fondamentale proposta di Max Scheler: «Bisogna, innanzi tutto, farla finita con l’errore molto condiviso che la scienza positiva (e il suo movimento progressivo) abbia mai potuto e mai possa, fintanto che essa rimane nei suoi limiti essenziali, torcere un sol capello alla religione. Questa tesi, sia essa sostenuta da credenti o da increduli, è sempre ugualmente falsa». Falsa, per la ragione che «ciò che fa tremare una religione dominante non è mai la scienza, ma l’inaridirsi e il morire della sua fede stessa, del suo ethos vivo – cioè il fatto che una fede “morta”, un ethos “morto” prenda il posto della fede e dell’ethos “vivo”, e soprattutto, che una nuova germinale forma di conoscenza religiosa, eventualmente anche una nuova metafisica conquistatrice di masse, la scacci. I tabù, che le religioni hanno impresso ai più diversi ambiti della conoscenza umana, dichiarando le rispettive cose come “sacre” e come “articoli di fede”, debbono perdere questo carattere di tabù per motivi religiosi o metafisici propri, e tornare ad essere oggetti di scienza […] Finché la natura è colma, per un dato gruppo, di forze personali e demoniache, essa è nella misura in cui lo è, esattamente ancora un “tabù” per la scienza». In altri termini, quello che Scheler sostiene è che «unicamente la spinta religiosa verso un’idea di Dio spirituale, meno biomorfica, e come tale più o meno monoteistica […] fa che la religione si elevi al di sopra dei vincoli delle comunità consanguinee e tribali, spiritualizzi e devitalizzi l’idea di Dio e renda libera poi in maniera crescente, perché la si investighi scientificamente, la natura raffreddata, per dirla così, nel suo carattere religioso e diventata relativamente oggettiva e “morta” o la parte della natura raffreddata in questo carattere religioso. Chi considera le stelle come divinità visibili, non è ancora maturo per una astronomia scientifica». Di seguito la tesi di fondo proposta da Scheler: «Il monoteismo creazionistico giudaico-cristiano e la sua vittoria sulla religione e sulla metafisica del mondo antico fu senza dubbio la prima fondamentale possibilità per porre in libertà la ricerca sistemica della natura. Fu un mettere in libertà la natura per la scienza in un ordine di grandezza che forse oltrepassa tutto ciò che fino ad oggi è accaduto in Occidente». E tutto ciò per la ragione che «il Dio spirituale di volontà e di lavoro, il Creatore che nessun greco e nessun romano, nessun Platone ed Aristotele conobbe, è stato […] la maggior santificazione dell’idea del lavoro e del dominio sopra le cose infraumane; e nel medesimo tempo operò la più grande disanimazione, mortificazione, distanziazione e razionalizzazione della natura, che abbia mai avuto luogo, in rapporto alle culture asiatiche e all’antichità».
- Non è la scienza che dissacra il mondo. La scienza purifica la fede dalle incrostazioni della superstizione e, finché rimane ricerca scientifica, non nega né afferma lo spazio della Trascendenza. E, in ogni caso, per poter essere investigato scientificamente, il mondo deve essere già dissacrato. E il mondo che non è Dio, che non è sacro è il mondo del creazionismo giudaico-cristiano, un mondo non più intoccabile, ma pronto ad essere sì oggetto di osservazione, ma, insieme, ad essere manipolato, smontato e, dunque, capito ed eventualmente ad essere utilizzato a fini umani.
Il messaggio cristiano è anti-idolatrico: desacralizza il potere politico – Kaýsar non è Kýrios; proibisce di trasformare in divinità la ricchezza – non si può servire a due padroni: a Dio e a Mammona; vieta di genuflettersi davanti ad una ragione mascherata da dea-Ragione. E opera la più grande disanimazione, mortificazione e razionalizzazione della natura predisponendola all’indagine scientifica. Non un aut-aut, ma un et-et è il rapporto esistente tra scienza e fede religiosa. Insanabile non è il rapporto tra la sfera dei valori della scienza e quella della fede religiosa. Insanabile, piuttosto, è la tensione tra quella “religione della scienza” che è lo scientismo – la scienza indebitamente trasformata in metafisica del “tutto” – e la fede religiosa. Scienza e fede sono compatibili perché incommensurabili sono le rispettive domande. Galileo: la meccanica ci dice «come vadia il cielo», la fede «come si vadia al cielo».
- La scienza, fintanto che rimane nei suoi limiti essenziali, non ha mai potuto e mai potrà torcere un solo capello alla religione. Così, dunque, Max Scheler. La situazione, però, appare ben diversa se ci spostiamo nel campo della filosofia. Senza spingersi troppo lontano nel tempo, vediamo, per esempio, che negli ultimi due secoli movimenti filosofici influenti ed ampiamente diffusi hanno costituito vere truppe d’assalto contro la religione, con la pretesa di poter cancellare qualsiasi spazio della fede nella Trascendenza. Fu Bruno Bauer a dire che con Hegel «l’Anticristo è venuto e si è rivelato». D’altro canto, se per le varie forme di materialismo (di ieri e di oggi) la Trascendenza è illusione, per i positivisti Dio è un’ipotesi inutile. Non illusione o inutile, ma dannosa per l’uomo è, ad avviso di Marx, la fede in Dio: «La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato […]. Essa è l’oppio del popolo». E «una nevrosi ossessiva universale» vede Freud nella religione. Dato che Dio non esiste – scrive Sartre ne L’esistenzialismo è un umanismo – «noi non troviamo innanzi a noi dei valori e degli ordini in grado di legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo né dietro a noi, né dinanzi a noi, in un dominio luminoso di valori, delle giustificazioni o delle scuse. È ciò che esprimerò con le parole che l’uomo è condannato ad essere libero». L’uomo è una passione, ma «una passione inutile». E dopo l’esistenzialismo ateo, la posizione contraria, quella strutturalista, per la quale non solo “Dio è morto”, ma morto è anche l’uomo. Michel Foucault: «L’uomo è un’invenzione che l’archeologia del nostro pensiero non ha difficoltà ad assegnare ad un’epoca recente. E forse neanche a dichiararne prossima la fine […]. Ai nostri giorni, piuttosto che l’assenza o la morte di Dio, viene proclamata la fine dell’uomo […] L’uomo sta per scomparire». E semplicemente insensate, prive di qualsiasi senso letterale, sarebbero, per i neopositivisti del Circolo di Vienna, le proposizioni che parlano di “Dio”, dell’“anima immortale” o di “Provvidenza”. Questi concetti e gli asserti che li inglobano sarebbero puri “non-sensi”, in quanto concetti e asserzioni non verificabili empiricamente, vale a dire non traducibili o riducibili al linguaggio “cosale” della fisica. «Né Iddio né alcun diavolo – dirà Carnap – potranno mai darci una metafisica». E per A.J. Ayer gli asserti di fede, insieme alle teorie metafisiche, «sono soltanto materiale per lo psicoanalista».
Queste influenti prospettive filosofiche sono forme di pensiero fondazionista, “assoluti terrestri” quali altrettante negazioni dell’“Assoluto trascendente”. Ebbene, che cosa è rimasto di queste e delle analoghe pretese di assolutezza immanentistica? Il secolo XX si era aperto con tre imponenti movimenti filosofici – positivismo, idealismo e marxismo. Che cosa è rimasto di questi “grandi racconti”? Norberto Bobbio: «È un fatto che nella nostra epoca, in cui assistiamo a uno sviluppo rigoglioso del sapere scientifico e contemporaneamente all’imporsi, attraverso gli strumenti del potere, di sempre più potenti sistemi ideologici, la grande filosofia è scomparsa». E ancora: «Non c’è nessuna riconquista filosofica che valga; certo il sapere scientifico è sempre un sapere parziale, ma procedimenti di ricerca che permettano un sapere totale (che è poi l’onniscienza, il sapere di Dio, “sarete come Dio”) con la stessa certezza e la stessa pratica efficacia con cui la scienza ha conquistato di volta in volta un sapere parziale, nessuno sinora li ha trovati».
- Dunque: «non c’è nessuna riconquista filosofica che valga»; «la grande filosofia è scomparsa». Ma se «la grande filosofia è scomparsa», irreprimibile resta la “grande domanda”, la richiesta di senso: «Richiesta di senso che significa bisogno di dare un senso alla propria vita, alle nostre azioni e a quelle di coloro verso i quali dirigiamo le nostre azioni, alla società in cui viviamo, al passato, alla storia, all’universo intero». Difronte ad ogni avvenimento – afferma Bobbio – noi ci poniamo due perché: 1) «quali sono le cause per cui accade quello che accade?»; 2) «[…] in quale disegno generale dell’universo si inserisce l’accadimento di cui conosciamo perfettamente le cause che l’hanno prodotto?». Ebbene, «nell’un caso si tratta di spiegare un fatto, nel secondo di giustificarlo. Il sapere scientifico, quando riesce, dà una risposta al primo perché. Non al secondo». Il primo perché esige una risposta causale; il secondo richiede una giustificazione finalistica di quello che è accaduto e che accade. Ma con ancora maggiore chiarezza: «La domanda di senso si allarga, si estende a tutta la nostra vita individuale, a tutta la storia dell’uomo, a tutto l’universo. Rispetto all’individuo, perché il dolore e non anche il piacere e non soltanto il piacere? Perché la sofferenza e non soltanto la gioia? Perché l’infelicità e non soltanto la felicità? Rispetto alla storia: perché l’oppressione e non soltanto la libertà? Perché la guerra, la violenza, le stragi e non soltanto la pace, il benessere e la fraternità? Rispetto all’universo intero, infine, la domanda fondamentale che comprende tutte le altre: perché l’essere e non il nulla? Non so se riesco a far capire la pregnanza di questa domanda che è davvero la domanda ultima. Perché ci sono cose, uomini, animali, piante, stelle, galassie, in una parola il mondo e non invece il non-mondo?».
Questa è, dunque, la “domanda ultima”, una richiesta di senso, la “grande domanda” che «rimane senza risposta, o meglio rinvia a una risposta che mi par difficile chiamare ancora filosofica». Non va cercata nella scienza la risposta alla “grande domanda” e la filosofia pone la “grande domanda” senza poter dare la risposta. Ma «proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea». L’uomo rimane un essere religioso perché gli è impossibile strappare via dalla sua mente la domanda ultima sul senso della vita di ogni uomo e di ogni donna e dell’universo intero. «L’esigenza di una risposta a queste domande c’è, queste domande ci sono. Il che spiega la forza della religione. Non è sufficiente dire: la religione c’è ma non dovrebbe esserci. C’è: perché c’è? Perché la scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare risposte».
- N. Bobbio: La “domanda ultima” «rimane senza risposta, o meglio rinvia a una risposta che mi par difficile chiamare ancora filosofica». E, in direzione analoga, A. Rigobello: «Fallita la via della razionalità piena e totale propria delle metafisiche moderne, insoddisfatti per la risposta vera ma parziale ed astratta della metafisica classica greca (i problemi dell’esistenza, del dolore, della morte, della salvezza personale non possono trovare soluzioni in forme astratte di pensiero), ci rimane la possibilità di pervenire ad una risposta situata su di un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda. Si tratta della risposta non omogenea alla domanda».
La domanda filosofica è una domanda che attende una risposta non omogenea a se stessa. Ad un problema di fisiologia non risponde uno studioso di epigrafia, né per risolvere problemi di filologia – per esempio: l’autenticità o meno di un testo di Boccaccio – ci rivolgeremo ad un chirurgo plastico. Eppure, la domanda filosofica esige una risposta «che par difficile chiamare ancora filosofica», una risposta «non omogenea a se stessa», vale a dire una risposta «non filosofica, ma di altra natura». E difronte a queste considerazioni sorge il fondato sospetto che la domanda filosofica non sia propriamente un “problema” da soddisfare con una “spiegazione”. Come posto in evidenza da G. Marcel e da Heidegger, e ancora prima da Agostino, la domanda metafisica è una domanda in cui tutti i dati (a cominciare da colui che se la pone) diventano incognite. E una domanda con tutte incognite non è un problema, non è una interrogatio, è piuttosto rogatio: una invocazione di senso ultimo non costruibile da mani umane.
- B. Pascal: «Mi guardo intorno da ogni parte e non scorgo dappertutto se non oscurità. La natura non mi presenta nulla che non sia motivo di dubbio e di inquietudine […]» (217). E poi: «Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e financo che vedo, inabissato nell’infinità immensa degli spazi che ignoro e che m’ignorano, io mi spavento» (220). Immerso in una natura muta e anche ostile, sperduto in un remoto angolo dell’universo – «il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi sgomenta» (222) –, «ignorando quel che sono e quel che debbo fare, non conosco né la mia condizione né il mio dovere» (217). La scienza tace sulle cose più importanti per noi; la filosofia pone le domande sul senso della vita, sul destino degli uomini, ma è incapace di trovarne e fondarne le risposte. «Incomprensibile che Dio esista e incomprensibile che non esista; che l’anima sia con il corpo e che noi non abbiamo anima; che il mondo sia creato e che non sia tale; che il peccato originale sia e che non sia» (101). E, a parte ciò, «l’ultimo atto è cruento, per quanto bella sia la commedia in tutto il resto: alla fine, ci gettano un po’ di terra sulla testa, ed è finita per sempre» (195). Dolorosa, tragica è la condizione umana – una condizione di miseria e di disperazione, che tentiamo di nascondere nella “distrazione” o che ci illudiamo di superare in una estenuante e vana ricerca razionale del presunto vero bene. Ma qui Pascal ci porta al punto nevralgico del suo tragitto intellettuale: «È bene sentirsi stanchi e affaticati dell’inutile ricerca del vero bene, al fine di tendere le braccia al liberatore» (449). Il “vero bene”, per Pascal, è quello che ti viene incontro alla luce della fede, alla luce del messaggio di un liberatore a cui l’uomo “stanco e affaticato” tende le braccia. E «la fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento […]. La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio» (142-143).
- S. Kierkegaard. L’angoscia caratterizza la condizione umana. E l’importante è capire che l’angoscia forma: «distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni». Certo, l’angoscia può portare alla tentazione del suicidio, ma questo significherebbe fraintendere l’angoscia, non imparare dalla sua scuola. Quel che veramente conta è, invece, dare il benvenuto all’angoscia, farla entrare nell’animo, lasciare che lo perquisisca, e permetterle di scacciare «tutti i pensieri finiti e gretti». È in questo modo che «Dio che vuole essere amato, discende con l’aiuto dell’inquietudine, in caccia dell’uomo». In un passo del Diario, Kierkegaard fa presente: «È una cosa eccellente, l’unica necessaria e chiarificante, questa che dice Lutero: “Tutta la dottrina (della Redenzione, e in fondo tutto il Cristianesimo) deve essere messa in rapporto alla lotta della coscienza angosciata. Elimina la coscienza angosciata, e tu puoi anche chiudere le chiese e farne delle sale da ballo”. La coscienza angosciata capisce il Cristianesimo, come un animale affamato; se gli metti davanti una pietra o un pezzo di pane, capisce che l’uno è da mangiare e l’altro no; a questo modo la coscienza angosciata capisce il Cristianesimo». È così che comprendiamo il perché «appena la psicologia ha finito di studiare l’angoscia, questa va consegnata alla dogmatica».
Se l’angoscia è possibilità come «minaccia del nulla», la disperazione è «il vivere la morte dell’io». Ed è dal non volersi accettare dalle mani di Dio che scaturisce la disperazione – e separarci da Dio equivale a strapparsi dalle proprie radici e ad allontanarsi da «quell’unico pozzo da cui si può attingere acqua». Sempre dal Diario: «Solo chi ha provato la disperazione capisce in fondo la Redenzione, perché ne sente il bisogno». E ancora: «[…] col credere io mi difendo dalla disperazione». E nelle Annotazioni da Berlino: «Provvidenza e Redenzione sono categorie della disperazione. Cioè io avrei dovuto disperare se non avessi potuto, sì, anzi dovuto credere. Dunque, esse non sono ciò che fa disperare, ma ciò che allontana dalla disperazione».
È con l’angoscia, «con l’aiuto dell’inquietudine, che Dio scende in caccia dell’uomo». È tramite la disperazione che si capisce che l’esistenza autentica è quella di chi si affida a Dio, di chi è pronto a testimoniare «la verità che è dalla parte di Dio». Angoscia come possibilità del nulla di senso; disperazione come incapacità di capire chi davvero siamo e quale sia il nostro autentico destino umano. Angoscia e disperazione come vie verso la luce sul difficile e terribilmente aspro cammino della fede. Che cosa, infatti, significa credere? «Credere – risponde Kierkegaard – è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano; indietro, indietro, indietro! Dunque: la via è stretta [Mt. 7, 14] (e questo appartiene già alla fede). La via è buia; anzi, non è soltanto buia di un buio pesto, ma è come se la luce dei lampioni non facesse che confondere e aumentare l’oscurità […] proprio perché gli indicatori stradali significano la direzione inversa».
- L. Wittgenstein. «Noi sentiamo che persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sarebbero nemmeno sfiorati». L’intento di fondo del “primo” Wittgenstein fu quello di delineare il dicibile – il dicibile dalla scienza – per proteggere l’ineffabile, quello che la scienza non può dire: l’etico e il religioso. Commenta Paul Engelmann: «Tutta una generazione di allievi poté considerare Wittgenstein un positivista, poiché egli aveva qualcosa di enorme importanza in comune con i positivisti: aveva tracciato la linea di separazione fra ciò di cui si può parlare e ciò di cui si deve tacere, cosa che anch’essi avevano fatto. La differenza è soltanto che essi non avevano niente di cui tacere. Il positivismo sostiene – e questa è la sua essenza – che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere. Quando ciononostante egli si prende immensa cura di delimitare ciò che non è importante, non è la costa di quell’isola che egli vuole esaminare con tanta meticolosa accuratezza, bensì i limiti dell’Oceano».
Dai Quaderni 1914-1916. In data 11-6-1916: «Che so io di Dio e del fine della vita? Io so che questo mondo è […]. Che in esso è problematico qualcosa, che chiamiamo il suo senso. Che questo senso non risiede in esso […]. Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio quale padre. Pregare è pensare al senso della vita». In data 8-7-1916: «Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto. Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso».
Una sintesi delle precedenti considerazioni sulla natura della “grande domanda”, vista quale “rogatio” e non come “interrogatio” e su correlati pensieri di Pascal, Kierkegaard e Wittgenstein, è come se si trovasse rinvenibile in una pagina de I racconti dei Chassidim in cui Martin Buber narra del Rabbi Mendel di Kozk. Costui «stupì alcuni uomini dotti che erano suoi ospiti con questa domanda: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Che dite? Se tutto il mondo è pieno della sua gloria?”. Ma egli rispose da sé alla propria domanda: “Dio abita dove lo si fa entrare”».
- «Pavel Aleksandrovič Florenskij è il pensatore che incarna, interpreta ed esprime come nessun altro sia la complessità e la varietà della cultura del XX secolo, sia l’anima del popolo russo nei suoi aspetti più profondi e specifici. Filosofo della scienza, matematico, fisico, ingegnere elettronico, teorico dell’arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, di simbologia e semiotica, filosofo della religione e teologo, è veramente una figura la cui esistenza può essere legittimamente considerata emblema degli splendori e delle miserie del Novecento». Questo scrive di Pavel Florenskij Silvano Tagliagambe.
Condannato alla pena di morte dalla trojka speciale di Leningrado, venne fucilato nella notte dell’8 dicembre 1937 in un bosco non lontano dalla città. Ed ecco il commento di Sergej Bulgakov allorché venne a sapere della morte di Pavel Florenskij: «Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande. E tanto più grande è il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena maggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia […]. Padre Pavel per me non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte […]. L’attuale opera di padre Pavel non sono più i libri da lui scritti, le sue idee e parole, ma egli stesso, la sua vita».
Scienziato di prim’ordine, Florenskij, sviluppando una originale teoria del simbolo, ha sin dagli inizi preso le distanze dalla pretesa di rinserrare l’esistenza nell’ergastolo dello Scientismo. Quello di Florenskij – ha scritto Natalino Valentini – è esattamente «un ardito tentativo di epistemologia del simbolo». È attraverso il simbolo che Florenskij trova la via per superare la scissione tra mondo visibile e mondo invisibile, tra realtà empirica e realtà ulteriore, tra il mondo e Dio.
Egli scrive nella prima delle dodici lettere che compongono La colonna e il fondamento della verità: «Questo nostro mondo si cruccia nelle contraddizioni se non vive delle energie dell’altro mondo. Negli umori, tendenze contrastanti; nella volontà, desideri contrari; nei pensieri, idee contraddittorie. Le antinomie frazionano tutto il nostro essere, tutta la vita creata. Dappertutto e sempre contraddizioni! Viceversa la fede che vince le antinomie della coscienza e tra esse riesce a respirare, ci offre il fondamento di pietra sulla quale possiamo lavorare per superare le antinomie della realtà. Ma come accedere a questa pietra della Fede?».
È nella fede, dunque, che si trova il fondamento per superare tutte le nostre lacerazioni e la scissione tra mondo visibile e realtà ulteriore. Da qui ben si comprende come l’esplorazione di tutte le possibili vie di interazione e rapporto dialogico tra realtà terrena e realtà trascendente costituisca il nucleo teorico della prospettiva filosofico-teologica di Florenskij. È nel culto, nella preghiera, nell’esperienza mistica (sia artistica che onirica) – vale a dire nelle varie manifestazioni del simbolo – che Florenskij trova «una finestra nella nostra realtà, una breccia nell’esistenza terrena dalla quale irrompono le correnti dell’altro mondo nutrendola e rinvigorendola. [Così], pur essendo, da un punto di vista materiale, essenzialmente terreno nella sua caratterizzazione particolare, all’interno della visione propria del culto, nell’aura di mistero che lo circonda, avviene e prende forma qualcosa d’altro, di santo, di consacrato, di trasformato, di transustanziato; è il mistero stesso».
Così, per esemplificare, è certo che un quadro, come realtà fisica, consiste nella cornice, nei colori, nella tela, ma esso è anche qualcosa di più: è una finestra su di un significato. E sta qui la ragione per cui a proposito delle icone si può parlare di una «teologia in immagine». Il simbolo rinvia sempre ad altro, ad un “altro superiore”. Scrive Florenskij ne La venerazione del nome come presupposto filosofico: «Il simbolo è un’entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che perciò si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza […]. Il simbolo è una realtà la cui energia cresciuta insieme o, meglio, confluita insieme con un altro essere più prezioso rispetto a lui, contiene in sé quest’ultimo».
In tal modo, annota Silvano Tagliagambe, esso non si contrappone al concetto, non è “l’altro” del concetto, quanto piuttosto è «il concetto stesso che, preso atto dei propri limiti, si apre al suo al di là, cercando di “forzare” in qualche modo i confini del pensiero razionale». 0, in altri termini ancora, è una realtà aumentata: come afferma Florenskij ne Lo spazio e il tempo dell’arte, e ribadisce in una preziosa pagina della raccolta Ai miei figli. Memorie di giorni passati: «Il simbolo è una finestra verso un’altra essenza che non è data direttamente […]. Per tutta la vita ho pensato, in sostanza, a una sola cosa: al rapporto tra fenomeno e noumeno, al rinvenimento del noumeno nei fenomeni, alla sua manifestazione, alla sua incarnazione. Sto parlando del simbolo. E per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del simbolo».
- «Con la fede – scrive Gerardus van der Leeuw – un elemento del tutto nuovo entra nella vita religiosa». In realtà, «il senso religioso di una cosa è quello cui non può succedere nessun altro senso più ampio o più profondo. E il senso del tutto, è l’ultima parola. Ora, questo senso non è mai inteso; questa parola non è mai pronunciata; l’uno e l’altro sempre ci superano. Il senso ultimo è un mistero, che si rivela sempre nuovamente, e tuttavia rimane sempre nascosto. Rappresenta un progresso fino all’estremo limite, ove si comprende soltanto una cosa, cioè che ogni comprensione sta al di là. Il senso ultimo è contemporaneamente il limite del senso». Sulla stessa linea di van der Leeuw si trova, sostanzialmente, Rudolf Otto, il quale sin dalle prime pagine de Il sacro ammonisce che «sarà sempre […] un impulso salutare il rilevare che la religione non consiste nelle sue espressioni razionali». La categoria del sacro, del numinoso – «è complessa e racchiude in sé un elemento di assoluta peculiarità, si sottrae alla sfera del razionale […] ed è una arreton, un ineffabile in quanto è assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale (come è anche il bello di un altro campo)».
In Italia è stato Luigi Pareyson a sottolineare, più che altri, che il linguaggio concettuale è una violazione della trascendenza. «Il problema dell’esperienza religiosa – scrive Pareyson – non è il problema metafisico di Dio, come invece suppone chi ancora si chiede se Dio debba o non debba concepirsi come sostanza o causa o come altro che sia. Questo è, se mai, il “Dio dei filosofi”, al quale potrà essere – o, meglio, essere stata – interessata la filosofia, ma che non riguarda certo la religione. Il Dio della religione è altra cosa: è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio vivente e vivificante, è un Dio a cui si dà del tu e che si prega, un Dio a cui si dice con trepidazione miserere mei e con disperazione ne sileas, a cui ci si rivolge domandando angosciati quare me repulisti, e supplicando con timore e tremore ne avertas faciem tuam a me, a cui nell’ora suprema ci si affida esclamando in manus tuas commendo spiritum menn ed implorando in te, Domine, speravi; non confundar in aeternum». Per Pareyson «il Dio autentico dell’esperienza religiosa non è raggiunto dai concetti strettamente filosofici di Dio». È ben vero che tra i vanti maggiori e più frequenti della tradizione metafisica viene addotta la rappresentazione concettuale della divinità come superamento dell’antropomorfismo, vale a dire come purificazione dell’idea di Dio dai residui antropomorfici. Ma ecco che, di fronte a simile vanto, dinanzi alla pretesa metafisica di aver superato l’antropomorfismo, Pareyson annota che «non si può non restar colpiti dalla scarsa riuscita dell’impresa, giacché l’esito è per lo più il risultato in contrasto con le primitive intenzioni». Difatti: «Concepire Dio in termini concettuali significa definirlo in base a categorie elaborate dalla mente umana e attribuirgli proprietà che direttamente o indirettamente inseriscono all’uomo, sia pure estremamente affinate e astratte, e sia pure pensate in senso eminente ed elevate al vertice. In tal senso concepire Dio come Essere, Principio, Causa, Pensiero, Ragione, Valore, Persona, Bontà, Provvidenza, e così via, è pur sempre un kat’anthropon légein che conferisce a tali concezioni della divinità un carattere sostanzialmente, anche se larvatamente, antropomorfico».
Due sono i tipi di antropomorfismo che Pareyson distingue: «quello concettuale, nascosto e taciuto, governato dal principio di esplicitazione oggettivante, e quello simbolico, consapevole e dichiarato, dominato dalla sollecitudine dell’inesauribilità». L’antropomorfismo genuino e rivelativo, aperto ad una verità trascendente che esso sa di non poter mai oggettivare è l’antropomorfismo «schietto e genuino […], aperto e riconosciuto del simbolo e del mito». Talché se il Dio dell’esperienza religiosa non è raggiunto dai concetti strettamente filosofici, «può nascere il progetto di cercarlo e la prospettiva di trovarlo in una zona più profonda e originaria del pensiero; là dove nessuna perplessità o esitazione può nascere all’idea che per il Dio dell’esperienza religiosa assai più che i concetti specificamente filosofici appaiono adeguati e significativi i simboli della poesia e le figure antropomorfiche del mito, quali si trovano, ad esempio, nelle teofanie sensibili dell’Esodo e dei Salmi, nei racconti della Genesi e dei libri apocalittici, nelle grandiose e fiammeggianti visioni dei profeti». Ed ecco il corollario – di enorme rilevanza – che segue da quanto detto: «L’importante non demitizzare l’antropomorfismo dichiarato e genuino, ma demistificare l’antropomorfismo occulto e deteriore».
Chiedo a Silvano Tagliagambe e a Natalino Valentini: non ci sono forse buone ragioni per sostenere che tra la teoria del simbolo di Florenskij e quella di Pareyson è presente una più che consistente «aria di famiglia»?.