L’incognita Trump

Una lettura delle sfide aperte con la nuova presidenza statunitense nell’intervista con il professor Flavio Felice, presidente del Centro Studi Toqueville-Acton

Come si può leggere l’elezione di Donald Trump?

«Come prima cosa, andrebbe ricordato che il conservatorismo e il “nazionalismo” anglosassoni non sono facilmente traducibili con gli analoghi concetti politici che conosciamo nel continente; è impossibile che un conservatore statunitense, per di più nazionalista, ammetta di condividere la prospettiva politica di un conservatore-nazionalista europeo: diversi sono i significati di “tradizione” e di “nazione” che uno statunitense attribuisce a queste parole rispetto ad un europeo; non fosse altro perché per un conservatore statunitense la “tradizione” è John Locke e la nazione è un continente. Detto questo, Trump esprime una rivolta contro ciò che in alcuni ambienti viene chiamata cultural condescension, un’accondiscendenza culturale nei confronti del politicamente corretto e un conformismo politico-culturale che risponde alle battaglie classiche del “radical liberalism” (“progressismo radicale”), ma che non intercetta gli “umori” – per dirla con Machiavelli – del popolo, o quanto meno della gran parte di esso: quando l’estabilshment si appella al popolo con toni populistici, il popolo sceglie l’originale; ed è quello che è accaduto a Hillary. Il peso che la politica “radical liberal” attribuisce a questioni che rientrano nell’agenda dell’ideologia gender, ad esempio, non è percepito come tale dalla grande maggioranza della popolazione statunitense; e non si tratta di essere più o meno acculturati, ma semplicemente di non condividere quella prospettiva culturale. Un’altra chiave di lettura potrebbe essere la constatazione che Hillary Clinton fosse soltanto una “resume candidate”. Una candidata con un ingombrante curriculum, ma senza significativi risultati sui quali poter giocare una campagna elettorale. Non è un caso che una trasmissione satirica come Saturday Night Live abbia ironizzato sulla Clinton, definendola un candidato “in corsa da 30 anni”, senza dire mai quello che ha fatto».

Ma anche Trump rientra nel filone del pensiero liberale? In cosa è differente dalla tradizione dei Bush e di buona parte del partito repubblicano?

«Se rientra anch’egli nel filone liberale dipende da che cosa intendiamo per “liberalismo” e di certo rompe con la tradizione del Partito Repubblicano, come d’altronde nel 1981 fece anche Reagan. A prima vista sembrerebbe più incline a soddisfare la retorica laissezfairista (il principio  del “lasciar fare” a favore del non intervento dello stato, ndr)   che quella di un libero mercato ordinato da norme conformi al mercato stesso che guida la dottrina economica conservatrice tradizionale. Ad ogni modo, è difficile rispondere a questa domanda, oltretutto Trump presenta anche un tratto mercantilista che confligge con il laissez-faire e incontra un isolazionismo che non è estraneo alla tradizione repubblicana. Credo veramente che la figura di Trump – ad oggi – sfugga dalle categorie politiche con le quali normalmente cataloghiamo i fenomeni politici.

A questo punto, credo sia metodologicamente errato e in definitiva sterile una disputa teorica sul grado di liberalismo di Trump, come su qualsiasi altro personaggio politico».

Cosa è allora importante evidenziare?

« Il dato fondamentale è che egli si troverà, come ogni presidente prima di lui, a fare i conti con un sistema di regole costituzionali e di prassi politiche fondamentalmente modellato sui principi liberali, ben più di quelli europei. E a questi dovrà rispondere giorno dopo giorno, nelle grandi come nelle piccole scelte di governo. Un Trump oggi in Paesi scarsamente liberali come Francia, Spagna, o la nostra Italia sarebbe una sciagura terribile. Non dimentichiamo che i Founding Fathers avevano previsto tutto: “Se gli uomini fossero angeli, nessun governo sarebbe necessario. Se gli angeli governassero gli uomini, nessun controllo – esterno o interno – sul governo sarebbe necessario. Nel prefigurare un governo di uomini nei confronti di altri uomini, questa è la difficoltà più grande: prima bisogna permettere al governo di controllare i governati, poi obbligare il governo a controllare se stesso” James Madison, Federalist, 51».

La visione delle risorse energetiche che il nuovo presidente repubblicano propone ci espone ad un rischio ambientale enorme?

«Spesso l’ambientalismo è inquadrato solo come una issue progressista, ma non dimentichiamo che in questa fase storica la tutela dell’ambiente sembra essere condizionata alla sottoscrizione di grandi trattati internazionali che prevedono significative cessioni di sovranità da parte degli Stati che vi aderiscono. È dunque normale una ritrosia statunitense (l’ha avuta anche Obama) su questo punto. Non mi aspetto grandi discontinuità di policy da parte della nuova amministrazione

Gli Stati Uniti hanno leggi ambientaliste molto severe e Trump non si è espresso su queste. Probabilmente retrocederà rispetto ad una interpretazione – quella di Obama – che il popolo statunitense immagino abbia giudicato eccessivamente rigorosa. Non dimentichiamo che il Presidente uscente, non avendo una maggioranza in Parlamento, si è servito dei procedimenti legislativi per via governativa; è probabile che questi provvedimenti saranno annullati o modificati. Si parla insistentemente di Sarah Palin come responsabile ministero competente, essendosi occupata di contrattazione con le compagnie petrolifere nei tempi in cui era governatrice dell’Alaska. Di fatto però, i sondaggi (a questo punto presi con le molle) mostrano come pochi americani pensino che il cambiamento climatico rappresenti un’urgenza, in forza della quale mettere in atto drastiche politiche nell’immediato. Una cosa è certa, il popolo americano ha punito coloro che sono saliti in cattedra, pretendendo di avere ragione per il solo fatto di aver occupato una cattedra. Per il resto, quale potrà essere la politica energetica di Trump credo che nessuno lo sappia, temo neanche Trump».

Papa Francesco ha avuto un diverbio a distanza con Trump evidenziando che erigere i muri di separazione non è opera da cristiano. Questo non sembra aver inciso sull’elettorato cosiddetto cattolico. Un motivo potrebbe essere perché dall’altra parte c’era la Clinton ?

«Anzitutto andrebbe detto che la vittoria di Trump è avvenuta con margini ristretti solo perché c’era Hilary come sfidante. Ai democratici non serviva certo un altro Obama per vincere, bastava un candidato normale, senza gli enormi scheletri nell’armadio della Clinton. Né le sue conclamate avversioni verso un ruolo positivo e proattivo delle religioni nello spazio pubblico. Secondo indagini demoscopiche fatte all’uscita dei seggi, il 52% dei cattolici e il 60% dei protestanti ha votato per Trump. Per giunta, quest’ultimo ha annunciato che si adopererà per l’elezione alla Corte Suprema di giudici pro life. Ma allo stesso tempo intende inserire anche personalità favorevoli al secondo emendamento (sul possesso di armi, ndr)».

Il destino di chi propone una visione integrale di accoglienza della vita dal grembo materno alla fine naturale passando attraverso tutte le fasi dell’esistenza (lavoro, migrazioni, ambiente, etc…) è destinato a non trovare spazio nella logica bipolare?

«Come è stato notato qualche anno fa da Navarro-Valls, questa polarizzazione dei valori è tipica dell’arena politica USA: da un lato la tutela della vita nascente e il diritto alla legittima difesa, dall’altro i non meno importanti valori del lavoro, dell’uguaglianza fra tutti i cittadini e del rispetto della “casa comune”. Di qui si vede la matrice protestante del Paese che ha plasmato il suo discorso pubblico: quella cattolica invece non è una logica dell’aut-aut, ma dell’et-et. D’altra parte, meglio una politica conflittuale sul piano dei valori (e un elettorato attento anche a questa dimensione) che una politica che li ignora (e un elettorato secolarizzato che coltiva un indifferentismo etico, come spesso accade dalle nostre parti). Quanto al diverbio tra Papa Francesco e Trump, tocchiamo un punto molto delicato e non vorrei essere frainteso. Molti osservatori ritengono che le parole di Papa Francesco abbiano finito per giocare un ruolo decisivo in questa elezione. Prendiamo il caso delle primarie in South Carolina, il candidato Marco Rubio, quello che potrebbe essere definito un cattolico moderato in materia di immigrazione, stava andando molto bene. Il South Carolina ha una lunga storia di razzismo, lì è cominciata nel 1860 la guerra civile, e Strom Thurmond è stato un senatore di quello Stato per quasi mezzo secolo. Ancora più importante è il fatto che il South Carolina è fortemente Battista e in parte i suoi abitanti si definiscono come “non cattolici”. Il Santo Padre ha detto: “se dice queste cose, quest’uomo non e Cristiano”. Dato che i battisti credono nella sola Scrittura e non ritengono che tale giudizio si possa evincere direttamente dalla Bibbia, ciò ha spinto tutti i candidati, tra i quali diversi cattolici, a correre a difesa di Trump. Sono tanti gli analisti che ritengono che le parole del Papa si siano rivelate un aiuto involontario a Trump, dal momento che la netta vittoria alle primarie in South Carolina ha rappresentato forse il punto di svolta nella marcia verso la Casa Bianca. Ad ogni modo, al netto dell’interesse per le ricadute politiche, affermare che chi costruisce muri tra le persone non si comporta in maniera cristiana la trovo semplicemente una frase di buon senso e che un Pontefice deve affermare sempre e comunque».

A prescindere da tutto, ci sono segnali positivi a suo giudizio che potrebbero arrivare dall’elezione di Trump? 

«Trump riceve in eredità dall’era Obama un Paese economicamente in ripresa (cui non attribuirei interamente il merito di ciò). Il tasso di disoccupazione è fermo intorno al 4 per cento. Un dato fisiologico per una grande economia industriale, checché se ne voglia dire. Dal punto di vista interno, Trump dovrà essere abile nell’introdurre alcuni punti “simbolici” del suo programma senza ingenerare pericolose spirali involutive del sistema economico del suo complesso. Se non cederà al protezionismo, se saprà dialogare con la maggioranza repubblicana al Congresso nel rispetto delle reciproche competenze, potrà mantenere un trend positivo. Più incognite certamente ci sono intorno al ruolo degli Usa in politica estera, dove credo però che lo storico pragmatismo dei conservatori, dopo la parentesi idealista neoconservatrice (e qui forse risiede la maggiore differenza tra il presidente neoeletto e George W Bush), potrà risolversi in una stabilizzazione del sistema internazionale. A quale prezzo? Certo non si tratterà di un gioco a somma zero. E se globalmente potremo magari ricavarci un periodo di pace, a perderci nel breve periodo potrebbe essere proprio l’Europa, a meno che non intraprenda con vigore la via federalista, quella auspicata da Einaudi e da Sturzo».

15/16-11-2016 a cura di Carlo Cefaloni
fonte: Città Nuova

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