Sergio Morisoli
Lockdown. Una parola inglese per (forse) addolcire il termine italiano isolamento. Viviamo due tipi di lockdown, quello che si vede e quello che non si vede (come direbbe Frédéric Bastiat). Il primo è quello materiale, il secondo è quello spirituale.
Parto dal primo. Il virus non ha fatto altro che renderci coscienti che il lavoro non è una condanna, le aziende non sono luoghi di sfruttamento, l’economia non è l’inferno e che i guadagni servono a riempire anche le casse dello Stato. La chiusura, ci isola, ci priva di umanità e crea un deficit di bontà. Il lockdown dell’economia è solo un assaggio, un anticipo di ciò che senza nulla cambiare nel giro di un paio di decenni sarà diventata la normalità. L’Occidente, prima che dal virus è colpito da declino economico e da denatalità, due catastrofi per le quali non c’è il vaccino.
Negli anni ’50 l’Occidente produceva quasi il 60 % del PIL mondiale, l’anno scorso ne produceva meno del 40%; tanto quanto nel 1850. A crescere enormemente sono Cina, India e Asia. La popolazione della Cina e dell’Africa Subsahariana verso il 2030 saranno il triplo di quella Europea; il tasso di natalità in Europa è del 1.51% quando il minimo per sostituire la popolazione che muore è del 2.1%. Ne riparleremo.
Ma il lockdown peggiore e molto più subdolo in atto, che incide anche sul primo, è il secondo; quello spirituale. Quello che si vede meno, che non fa cronaca e nemmeno scoop. Cioè lo spegnimento della cultura, della ragione, dell’intelletto, della critica, della ricerca di una verità ultima in quel che accade e quindi di senso.
Il contagio attraverso il virus del pensiero unico e del politically correct è vastissimo in tutto l’Occidente, spegne più cervelli della pandemia. È una contaminazione in corso da decenni ma che attualmente sembra addirittura essere utile, un vantaggio: mette a tacere anche quei pochi dissidenti della libertà rimasti sparpagliati. Ormai eretici e streghe nell’osare solo a dubitare della scienza, della tecnologia, di certe élites, del progresso sociale, delle mega organizzazioni internazionali nei quali abbiamo riposto ogni speranza e scommesso tutto per vivere rincorrendo la massima sicurezza. Stufati e assuefatti dai “liberi di” e “liberi da”, come dal XVIII secolo via abbiamo provato a fare con fatica; esigiamo e puntiamo ora alla certezza del “sicuri di” e del “sicuri da”.
Questa è la nuova cifra di questo primo scorcio di postmodernità. Non idealizziamo più un ente per garantirci libertà, bensì un ente per imporci sicurezza. Il non pensiero veicolato da anni e la tremenda paura per la salute, possono diventare l’humus ideale per permettere a qualcuno di coltivare idee liberticide, e come il secolo scorso ha dimostrato, anche mortifere. C’è sempre, purtroppo, uno scopo buono all’origine dei totalitarismi (Hanna Arendt); si vorrebbero costruire sistemi talmente perfetti in cui non è più necessario che l’uomo sia buono (T.S. Eliot); gettarsi nelle braccia rassicuranti e comode di un ente supremo dimenticando però che chi detiene tutti i mezzi determina tutti i fini (F.A. von Hayek).
Questi pensatori eccelsi, e molti altri che hanno vissuto il delirio del totalitarismo e dell’onnipotenza umana, ci hanno messo in guardia in modo laico dal rincorrere la salvezza del corpo (buona vita) senza la salvezza dell’anima (vita buona). Di questi tempi, il silenzio di molti, troppi, intellettuali, artisti, persone di cultura, impauriti o smarriti per la pandemia; per non dire della disattenzione di molti politici, e la loro assenza sul fronte della libertà, è di difficile interpretazione. Soffrono in isolamento di “mea culpa” per un sistema, incentrato totalmente sulla netta separazione tra fisica e metafisica, tra ragione e fede, tra scienza e coscienza, tra progresso e tradizione che hanno contribuito a consolidare e che si sta rivelando impotente per rispondere alle sfide; oppure in silenzio si stanno preparando al grande salto: non più l’uomo e la sua libertà al centro del pensiero e dell’universo, ma il niente e la programmazione.