Intervista di Carlo Cefaloni a Flavio Felice
“Città Nuova”, 3 – 2017 Extra
D. Professor Felice, papa Francesco invita ad intervenire sulle cause strutturali dell’economia che uccide. È un discorso proponibile?
R. Non credo sia un discorso fuori dal tempo e tanto meno rientra nel novero delle utopie: il cristianesimo, in forza della sua prospettiva antropologica, esprime un’alta forma di realismo. Direi che Papa Francesco si inserisce nella ricca tradizione del Magistero sociale della Chiesa, confermandola e aggiornandola alla luce delle problematiche contemporanee. Da Leone XIII a Benedetto XVI, passando per Giovanni Paolo II, non è esistito Pontefice che non abbia invitato i cristiani ad intervenire sugli elementi strutturali della vita economica e civile in generale; e qual è l’elemento originale da cui tutto dipende se non la persona? Pensi soltanto a come Giovanni Paolo II, in Sollicitudo rei socialis (1987), riprendendo l’esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia (1985), abbia affrontato il tema delle strutture di peccato. Giovanni Paolo II ci dice che le cause del “sottosviluppo” andrebbero ricercate in primo luogo nell’irresponsabilità civile di chi detiene posizioni dominanti all’interno della società civile. Il brano in questione ci dice che le strutture sociali, ovvero le istituzioni politiche ed economiche, non essendo soggetti di atti morali, non possono essere considerate in se stesse né buone né cattive, in quanto la responsabilità andrebbe sempre imputata in capo a coloro che operano in esse.
In definitiva, secondo la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa le situazioni di ingiustizia e di malessere sociale dipendono da personalissimi peccati di chi genera condizioni di iniquità, ma anche da chi più modestamente le favorisce, fino a comprendere coloro che se ne servono, sfruttandole, per il raggiungimento dei loro personalissimi obiettivi.
Tutto ciò basterebbe a qualificare il modo di essere dei cattolici nella sfera civile in maniera tutt’altro che “moderata”, eppure il brano in questione ci invita ad andare ben oltre e, tra i personalissimi peccati che contribuiscono all’edificazione di tali strutture, vengono comprese anche le azioni di chi, pur potendo fare qualcosa per evitare, eliminare ovvero limitare situazioni di iniquità sociale, non lo fa per pigrizia, magari per paura, una paura che può giungere fino all’omertà. Un peccato di omissione che è spesso giustificato a partire da una cultura dell’indifferenza e della complicità con il potere, un’indifferenza e una complicità che fiaccano le nostre energie e ci fanno desistere dalla quotidiana fatica della partecipazione, accampando scuse quali l’impossibilità di cambiare il mondo ovvero le immancabili ragioni di forza maggiore: “ragion di stato”, di “partito”, di “classe”, di “nazione”, di “razza” e via dicendo. Il brano si conclude ricordandoci che “Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone. Una situazione e così un’istituzione, una struttura, una società non è di per sé, soggetto di atti morali; perciò non può essere in se stessa buona o cattiva”.
D. Non esiste sempre il rischio di derive filantropiche che Francesco prende di mira? Quali sono, a suo giudizio, i segni per capire che si toccano le leve reali dell’economia?
R. Ha perfettamente ragione, uno dei rischi maggiori che corrono tutti coloro che manifestano una certa sensibilità per le ragioni della solidarietà sociale è di cadere in una sorta di malinteso solidarismo che, malgrado le ottime intenzioni di chi lo esercita, rischia di creare dipendenza e passività in coloro che lo subiscono. Uso a ragione il termine “subiscono” perché i poveri non meritano di passare da una dipendenza materiale ad una persino più invasiva: quella psicologica che diventa esistenziale. La filantropia è sicuramente degna di grande attenzione da parte di noi tutti, tuttavia non risolve il tema di come promuovere e sostenere l’inclusione che nasce dalla “soggettività creativa” delle persone, l’unica capace di rendere manifesta e compiuta la dignità umana. Oltretutto, la filantropia rischia di intervenire solo a valle del processo di inclusione e di partecipazione alla costruzione della società civile e di risolversi in una sorta di terapia di riduzione del danno, ma il danno ormai è compiuto e non riparabile e consiste nell’esclusione dei più. A questo livello della discussione, è interessante notare come i padri dell’economia sociale di mercato, sia di marca tedesca sia di marca italiana (mi riferisco in particolare a Luigi Sturzo e Luigi Einaudi), abbiano evidenziato come un’economia inclusiva, degna della civitas humana, non risolve il tema della povertà affidandosi, a valle, all’elemosina di Stato o a quella privata, in fondo due facce della stessa medaglia. La civitas humana si edifica gradino su gradino, esaltando la dignità di ciascuna persona in tutti gli ambiti e a tutti i livelli della vita civile, compresa quella economica, e il mercato aperto (concorrenziale) e regolato (antimonopolistico) può rappresentare uno straordinario strumento di inclusione sociale nella misura in cui consenta la liberazione dalle catene della povertà e della società servile; in fondo, come ci ricorda Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, è stato questo il grande merito dell’“economia d’impresa” o “libera” che dir si voglia e per usare le espressioni di Papa Wojtyla: aver spezzato le catene della società servile e introdotto i presupposti della società libera.
D. Francesco nell’Evangelii gaudium ha preso di mira la teoria della ricaduta favorevole tipica del liberismo. Lo scontro non è con il capitalismo rapace a favore di quello compassionevole, ma del sistema in sé. Cosa vuol dire? Gli esponenti dell’economia civile distinguono l’economia di mercato, che ha nella sua natura la necessità della relazione e della felicità pubblica, dal sistema capitalista. È una distinzione che condivide?
R. Certo che si tratta di una distinzione condivisibile dal sottoscritto, ma, con tutto il rispetto, non ce la stiamo inventando noi oggi: è il tratto identitario della cosiddetta “economia sociale di mercato”. Wilhelm Röpke su questa distinzione nel 1942 ci ha scritto un libro: La crisi sociale del nostro tempo, e Luigi Einaudi l’anno seguente un corposo saggio, così come Luigi Sturzo: la distinzione degli autori appena citati era tra “economia di concorrenza” e “capitalismo storico”. La stessa distinzione nel 1991 viene sviluppata Giovanni Paolo II in Centesimus annus, lì dove distingue tra “capitalismo” sano e “capitalismo” insano, quello che non riconosce il “ruolo fondamentale e positivo” della libertà integrale e indivisibile, invitando ad utilizzare le espressioni “economia di mercato”, “economia d’impresa” o “economia libera”, piuttosto che “capitalismo”.
Veniamo alla questione del trickle-down. Con questa espressione si intende la “ricaduta favorevole”, ossia, la fiducia che un mercato dinamico e flessibile sia in grado di produrre effetti positivi per tutti: una sorta di effetto traino dovuto ad un mercato dinamico.
Dunque, si tratta di un sistema teorico e, al pari di qualsiasi sistema, esso può essere più o meno apprezzato e più o meno condiviso, sempre criticato e in perenne assedio sotto il fuoco dei tentativi di falsificazione.
A questo punto, che cosa ci dice Papa Francesco? In primo luogo, non sembra che il Pontefice neghi o condanni il mercato, anzi riconosce il dato empirico che il mercato favorisce la crescita economica: “crescita economica, favorita dal libero mercato”. Tuttavia, il Papa ci dice che la crescita, trainata dal mercato, non è empiricamente ed immediatamente sinonimo di sviluppo e di inclusione; e come negarlo? Il mercato, dinamico e aperto, potrebbe essere lo strumento migliore per incrementare la crescita, ma tale crescita (elemento quantitativo) non si traduce necessariamente in sviluppo umano integrale ed inclusione sociale (elemento qualitativo), che poi è ciò che interessa alla Dottrina sociale della Chiesa e che dovrebbe interessare a ciascun cristiano.
In secondo luogo, non risulta che il Papa affermi che l’impossibilità di ridurre lo sviluppo alla crescita economica sia imputabile al mercato in quanto tale; non risulta dalle parole di Papa Francesco e di certo non appartiene alla tradizione del Magistero sociale. Il mercato è un dispositivo-processo per la raccolta e la trasmissione di informazioni, coordinato dal sistema dei prezzi. In pratica, il mercato è lo strumento di cui si servono gli operatori economici e svolge la sua funzione nella misura in cui ottimizza – sotto vincoli – il processo di raccolta e di trasmissione delle informazioni in ordine alla domanda di beni e servizi. Non possiamo chiedergli di dire e di fare ciò che non sa dire e che non può fare. Lo sviluppo integrale non è riducibile alla mera crescita economica perché il primo presuppone una dimensione meta economica, culturale, valoriale che il mercato non produce da sé, se non mediante l’opera delle persone che in esso vi operano. Come, tra gli altri, ci hanno insegnato i padri dell’economia sociale di mercato; argomento ripreso peraltro da Papa Benedetto XVI nella Caritas in veritate, ma come del resto ci ha insegnato anche Adamo Smith, il mercato nudo e crudo semplicemente non esiste. Esistono i valori, le culture, le fedi, le tradizioni che conformano le istituzioni che, a loro volta, erigono i mercati e qualificano i processi di mercato. In breve, sono le scelte e le azioni degli operatori che offrono la cifra umana ed inclusiva di un mercato, il suo volto, la sua storia.
In pratica, assumere quel passaggio di Papa Francesco significa ammettere che si possa dare una crescita senza lo sviluppo, perché esiste un profitto di monopolio, un profitto di guerra; perché esiste il profitto di chi pretende di raccogliere senza aver prima seminato, di chi si approfitta delle strette relazioni con il potere, di chi devasta la terra, di chi traffica in droga e in armi; perché esiste un profitto di chi consuma in modo dissennato le ricchezze prodotte dalle generazioni precedenti e di chi scarica i costi del presente sulle generazioni future. In definitiva, tornando al tema delle strutture di peccato, perché esistono persone che operano in politica come in economia e in qualsiasi altro ambito del vivere civile mosse dall’irresponsabile proposizione “ad ogni costo e a qualsiasi prezzo”.